Voglio riassumere icasticamente il dibattito sulla sperimentazione animale a Bergamo del 12 ottobre 2014 confrontando da una parte l’abbigliamento del Dottor Remuzzi, illustre scienziato del Mario Negri, vivisezionista, e dall’altra quello del Professor Filippi, altro illustre scienziato, risaputamente antivivisezionista. Da una parte Remuzzi portava, sotto il maglioncino blu, dei pantaloni e una camicia bianchi, che gli consentivano di sprofondare mimetizzandosi (camaleontico more) nella poltroncina candida su cui sedeva. Effetto jinn o genio della lampada, per intenderci: quell’aura semidivina che solo la casta medica sa assumere quando indossa il camice. Dall’altra Filippi in vesti anonime, con un calzino a righe variopinte che si affacciava sospetto sotto l’orlo dei pantaloni: un segno inequivoco della sua eterodossia rispetto al paradigma scientista e di deviante, affascinante pericolosità intellettuale (dico pericolosa per i fautori della vivisezione).
Sarei felice di proseguire su questo tono entusiasta e fare un panegirico del Professor Filippi, che dopo che l’unica altra persona su quel palco a condividere le sue idee è stata maleducatamente ammutolita, ha combattuto brillantemente (e vittoriosamente!) un’epica battaglia nella sua solitudine ed eroicità -sebbene egli sia per temperamento quanto di più lontano dall’eroe in senso classico-. Una simile celebrazione sarebbe del tutto meritata, visto che nel marasma animalista di chi insiste ad opporsi alla sperimentazione animale con fuorvianti argomenti scientifici, Filippi è invece uno dei pochissimi oggi (e forse il primo per autorevolezza) che nei suoi interventi pubblici riporta la questione alle fondamenta etico-politiche che le sono proprie. Tuttavia, cercando di trattenermi da un elogio sfegatato, mi concentrerò piuttosto sulle conseguenze spettacolari che ha avuto, in un confronto tra vivisezionisti e antivivisezionisti, l’uso da parte di questi ultimi di argomenti esclusivamente etico-politici.
Quando è chiaro a monte che si tratta di una pratica inaccettabile, diventa irrilevante se la vivisezione possa dare risultati utili o no al progresso scientifico: da una prospettiva antispecista, che rifiuti cioè la discriminazione su base di “specie”, è tanto ingiusto sacrificare (questa parola è spaventosamente significativa e non mi sorprende sentirla adoperata dagli stessi vivisettori!) un topo quanto un uomo del terzo mondo (entrambe queste vie, per inciso, una legalmente e l’altra no, sono state battute dai grandi marchi farmaceutici). Purtroppo fino ad oggi i rappresentanti del movimento animalista si sono quasi sempre affidati ad argomenti tutti dati e statistiche (spesso astrusi e strampalati), tesi a dimostrare come la ricerca sugli animali produca risultati inutili ai fini del progresso scientifico (e pertanto vada abbandonata). In questo senso la discussione si è sempre più tecnicizzata ed arenata nelle sacche di una disputa asfissiante tra medici, biologi ed altri specialisti. Al contrario, l’ultimo evento di Bergamo e gli altri immediatamente precedenti che hanno visto la partecipazione di Filippi fanno riflettere su come sarebbe bene ritornare a parlare dell’illegittimità etica della vivisezione e lasciare perdere gli altri argomenti indiretti. Così facendo si spalancherebbe a nuovi orizzonti il dibattito, si sbaraglierebbero le obiezioni futili e inadeguate degli avversari, si metterebbe a fuoco il nucleo del problema e al contempo se ne paleserebbe la continuità con gli altri fronti di lotta sostenuti dal movimento (abolizione delle carne e delle pellicce, opposizione ai circhi e a ogni altra forma di sfruttamento e mercificazione degli animali).
La conferenza del 12 ottobre si intitolava “Sperimentazione animale? Come va avanti la medicina” e vi hanno partecipato gli scienziati Stefano Casola, Massenzio Fornasier e Pier Giuseppe Pelicci (oltre al suddetto Remuzzi, che faceva da arbitro e moderatore del dibattito) e il filosofo Massimo Reichlin. A sostenere invece la causa dell’abolizione della sperimentazione animale (ma sarebbe più corretto dire a spese degli animali) c’erano Massimo Filippi e la mai abbastanza lodata Serena Contardi, filosofa e blogger. Come accennavo però, Serena non ha dato il meglio di sé in questa occasione, perché dopo le ripetute aggressioni verbali del (presunto) moderatore, non ha avuto praticamente modo di spiegarsi.
Se mi è concessa una breve digressione, nel marzo di quest’anno ho avuto il piacere di organizzare un incontro (una battaglia campale) sullo stesso argomento nella mia Università. Il mio contributo è stato minimo: mi limitavo a introdurre gli ospiti e a redarguire il pubblico più cafone. Tuttavia me ne sono andato soddisfatto per non aver lasciato al pubblico la minima impressione di faziosità. Pur avendo in odio la vivisezione, alla fine gli esponenti di Pro-Test da un lato e gli animalari beceri dall’altro non avevano ben capito da che parte stessi (solo in seguito, per giustificare la loro magra figura, Pro-test e la pagina Facebook “A favore della Sperimentazione Animale” mi hanno tacciato di parzialità). A Bergamo invece a differenza di me il Dottor Remuzzi (che pure, sempre a differenza di me, non è uno studentello ma può vantare meriti esorbitanti nel suo campo di studi) ha tenuto una condotta ripugnante per la sua arroganza e parzialità.
Stavo dicendo che Remuzzi ha tacitato Serena Contardi mettendola davanti ad alternative assurde e spiazzanti, degli aut aut come “immoliamo una zanzara per modificarla geneticamente o lasciamo morire di malaria 5 milioni di bambini africani?” ed interrompendola mentre tentava di argomentare. I quesiti mefistofelici posti dal Remuzzi alla Contardi, che collocavano l’intero dibattito in un clima emergenziale (in parafrasi: “Ebola incombe! Occorre subito una strage di macachi per scovare una soluzione, non possiamo permetterci il lusso di riflettere”), hanno spinto a dissociarsi persino chi, come lui, si trovava lì per difendere la sperimentazione animale: si veda nel video l’intervento del Dottor Casola, alla fine del cinquantaseiesimo minuto.
Il filosofo Massimo Reichlin ha tenuto una posizione piuttosto ambigua, ma è alquanto sconveniente giocare ai moderati quando ne passa della vita o della morte degli animali chiusi nei laboratori (per non parlare di quelli che li hanno preceduti o che li sostituiranno dopo che saranno stati uccisi). La parafrasi è mia: “la filosofia animalista, se così la si può definire, contiene delle provocazioni giovevoli alla scienza perché questa accresca le misure precauzionali nel trattamento degli animali da laboratorio, ma è un errore pensare che essi meritino la stessa considerazione degli esseri umani e che dunque non possano essere usati come cavie”. Le argomentazioni che portava si rifacevano ad autori stantii di stampo liberale, per cui “le scimmie antropomorfe sono simili a noi e vanno risparmiate, invece gli insetti e i roditori sono stupidi e ci assomigliano di meno, per cui procediamo tranquillamente a vivisezionare loro”.
In generale gli altri relatori pro-sperimentazione si sono rifugiati in una serie di tecnicismi anodini e disquisizioni normative, interessanti forse per gli addetti ai lavori, ma completamente insignificanti di fronte ad una critica antispecista della sperimentazione animale. Volare basso descrivendo come funziona e come viene regolata la sperimentazione animale, non vale affatto a giustificarne l’esistenza. Così come è irrilevante tornare a ribadire di continuo che gli animali utilizzati come strumenti di laboratorio sono sempre meno numerosi e appartengono a specie “poco nobili” (!) o che (quale menzogna!) sono sempre trattati sotto anestesia. Remuzzi in particolare, non senza una certa morbosità, ha elencato almeno dieci volte le seguenti categorie: topi, ratti, moscerini della frutta, piccoli pesci. Che si tratti di animali socialmente poco considerati e di piccole dimensioni è evidente, ma basta questo a renderli “sacrificabili”?
Il Dottor Casola (non che ce ne fosse il bisogno) ha fatto sfoggio di una serie di slogan che hanno messo a nudo l’antropocentismo di fondo del pensiero dominante: “la nostra missione è aiutare l’essere umano”, “è importante l’essere umano, non il fatto di metterlo sullo stesso piano degli altri animali”. Anche il Professor Pelicci, con la sua retorica tosca bonaria e suadente, non è stato da meno e ha saputo trincerarsi bene dietro a un muro di senso comune. Quando Filippi ha invitato i colleghi presenti, se davvero come dicono hanno a cuore il benessere animale, a seguire gli animalisti nelle proteste contro i circhi o il consumo di carne (forme di sfruttamento chiaramente non indispensabili alla sopravvivenza umana), Pelicci si è schermito sostenendo di avere “un rapporto soddisfacente con gli animali”. Forse qualcuno dovrebbe rammentargli che ogni rapporto presuppone una relazionalità e che gli animali detenuti nei laboratori da cui egli trae i dati per i suoi studi, se solo potessero, non si direbbero certo soddisfatti del rapporto che hanno con lui.
Varrebbe la pena di spendere qualche parola sulla brutale e sconcertante nonchalance con cui il Dottor Remuzzi ha chiuso il dibattito, affermando che i relatori erano in sostanza tutti d’accordo e che comunque la sperimentazione animale tra vent’anni (?!) non sarà più necessaria. Ma la peggiore delle grossolanità da lui pronunciate è quella con cui ha esordito, a proposito della necessità di non usare l’espressione “vivisezione” come intercambiabile con “sperimentazione animale”: secondo Remuzzi, essere vivisezionati significa subire un intervento chirurgico da vivi, per cui anche lui (che sciando si ruppe un ginocchio) o chi ha subito un’operazione simile può considerare a buon diritto di essere stato vivisezionato. A tanta malafede, orrida e lampante, per fortuna non è mancata una risposta di Filippi: “C’è una differenza fondamentale tra i pazienti umani e gli animali sperimentati, che i pazienti umani si ammalano da soli e vengono loro in ospedale e possono firmare una cartella ed uscirsene. Non credo che gli animali da esperimento scelgano loro di ammalarsi, vengano loro e amino stare in gabbia e decidano di uscire quando vogliono. […] Non giochiamo sulle parole: <<vivisezione>> non l’ho mai usata, sono contento che qui si usi <<sperimentazione animale>> (se vogliamo essere più precisi usiamo <<sperimentazione sugli animali>>), ma non si giochi sulla sofferenza…”.
I discorsi scientifici (o pseudo-scientifici) sulla inutilità e l’arretratezza della vivisezione come metodo di ricerca, per quanto a qualcuno possano apparire inoppugnabili e rassicuranti, stanno ritardando gravemente il dibattito sulla liceità della sperimentazione animale. Sono convinto che argomenti come quelli di Filippi a Bergamo, cioè una critica alla distinzione ideologica tra “uomo” e “animale” (darwinianamente ispirata) e un attacco più esteso alla società e ai valori che rendono possibile la reificazione e lo sterminio dei non umani, debbano tornare al più presto a farla da padroni in tutte le occasioni di confronto pubblico.
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