Perché una rubrica che si chiama “Brigata libero mercato” dedica il proprio articolo a Enzo Tortora e non a Luigi Einaudi, Friedrich von Hayek o Milton Friedman? Perché una rubrica che ha un titolo come il nostro, sceglie di cominciare la propria vita con un articolo dedicato ai temi della giustizia e non dell’economia? Primo, perché Enzo Tortora è uno dei miei eroi ed è bene che sappiate, cari lettori, che molti degli articoli di questa rubrica saranno dedicati alla storia e agli insegnamenti dei miei diversi eroi. Secondo, perché – come abbiamo fissato nero su bianco (o pixel su pixel, fate voi) sul nostro “manifesto” – questa rubrica non è e non sarà mai solo un concentrato di discorsi economici, un’apologia del solo liberismo: sarà un’appassionata difesa della Libertà. Quella libertà per cui Enzo Tortora combatté la battaglia più importante della sua vita.
Il Collegio Augustinianum ha ospitato, martedì 18 novembre, una conferenza dal titolo “«Il Caso Italia. Enzo Tortora e la battaglia per la “giustizia giusta”», al cui interno sono intervenuti l’avvocato Raffaele Della Valle – avvocato e legale di Tortora – e il professore Guido Vitiello, dell’Università La Sapienza di Roma – giornalista e autore di “Non giudicate”, un libro fondamentale per la coscienza di qualsiasi garantista vero: di chi, cioè, per dirla con Leonardo Sciascia, crede nel diritto e nella giustizia e sa per questo che “giudicare” è la più dolorosa e terribile delle necessità.
Grazie alla testimonianza diretta dell’avvocato Della Valle, che visse in prima linea e in prima persona il terribile calvario (e la coraggiosa battaglia che ne seguì) di Enzo Tortora, è stato possibile ricostruire “il più grande esempio di macelleria giudiziaria del nostro Paese”, come ebbe a definirlo Giorgio Bocca. È stato possibile ricostruire il modo in cui Enzo Tortora, da stimato e rispettato giornalista e presentatore (uno che alle nove di sera andava a letto con un libro di Karl Popper, come ha raccontato la figlia Silvia), si ritrovò – la mattina del 17 giugno 1983 – “trasformato” in un mostro; trasformato da un paio di manette strette ai polsi e date in pasto ai giornali, da un’accusa infamante e oltraggiosa mossagli contro sulla base di non si sa quali prove o indizi, da un trattamento del tutto simile a quello riservato al povero Jean Calas del “Trattato sulla Tolleranza” di Voltaire. Enzo Tortora era un camorrista: così era stato deciso prima di ogni indagine, verifica e processo. Come raccontato proprio dall’avvocato Della Valle, Enzo Tortora si trovò costretto a vivere una storia dal sapore kafkiano, segnata dal “combinato disposto” tra l’insipienza e i clamorosi errori della magistratura e l’accanimento mediatico: dopo un’assurda e mostruosa condanna in primo grado, ci vorranno infatti quasi 4 anni perché si accertasse, in Appello e Cassazione, che non era solo “innocente”, ma addirittura “estraneo” a ciò che gli veniva contestato. Enzo Tortora dimostrò, in più di un’occasione, la sua completa e assoluta integrità: momento centrale della serata è stata la lettura della lettera con cui Tortora chiese – formalmente – al proprio avvocato Della Valle di non richiedere alcuna “subordinata” in Appello rispetto a una sua possibile “non assoluzione”. Come ribadito dall’avvocato Della Valle, Tortora non era uomo di compromessi: voleva che fosse fatta interamente luce sulla verità del suo caso. O colpevole o innocente.
Dopo la rievocazione storica del caso Tortora, è stato grazie al professore Vitiello che si è attualizzata la vicenda, evidenziandone il lascito, a più di trent’anni di distanza. Dopo tutto questo tempo – nonostante il proliferare di indegne strumentalizzazioni e improvvidi paragoni – Enzo Tortora rimane un eroe per tutte le “brave persone” d’Italia. Se le sofferenze e il martirio che ha subito non fossero stati veri, si potrebbe dire di lui che è stato il protagonista di una leggenda: egli affrontò, infatti, i meccanismi impazziti di una “giustizia” “ingiusta”, impunita e impersonale (come sottolineato proprio da Vitiello, dal rapporto di polizia che apre la vicenda alle considerazioni del PM Olivares in Appello che la chiude, continua a ripetersi un “si vuole Tortora dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti”: ma chi è che lo vuole e perché lo vuole non si è mai chiarito) in cui fu a forza gettato. Egli “tenne”, come tenne – prima di lui, ma stavolta solo nelle pagine di un romanzo meraviglioso – l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, del “Consiglio d’Egitto”. Egli riuscì a spezzare quei meccanismi, riuscì a vedersi proclamato innocente (lasciando noi con il dubbio che non lo fossero quelli che lo avevano perseguitato). E dalla sua vicenda giudiziaria, Tortora uscì vittorioso, affranto e distrutto: e ne morì, lasciando che il cancro completasse l’opera cominciata da altri. Ma ciò che rende Tortora davvero eroico non è solo l’aver combattuto: è il non aver combattuto solo per sé. Non è stato il «caso Tortora», è stato (ed è ancora) il «caso Italia»: egli parlava (e parla ancora) “per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti e sono troppi”. Perché quello che successe a Tortora succede ancora e può succedere a chiunque di noi: e noi non siamo Tortora, non abbiamo la sua volontà e la sua forza.
“Dove eravamo rimasti?” si chiese Enzo Tortora al suo ritorno in tv, il 20 febbraio 1987, riprendendo l’eco dell’“Heri dicebamus” di Luigi Einaudi. Forse sarebbe stato più corretto dire: dove siamo rimasti? Siamo infatti sempre lì, purtroppo. Siamo sempre di fronte all’anomalia giuridica e giudiziaria di questo Paese, il Paese che più che per Cesare Beccaria andrebbe forse ricordato per Diego Marmo, il pm che trascinò Tortora alla gogna. O per la classe politica della fine degli anni ’80 che pensò bene di tradire e vanificare il risultato del Referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, l’ultima battaglia e vittoria politica di Enzo Tortora. Una classe politica e una giudiziaria degne eredi di quelle che, sul finire del ‘600, avevano mandato a morte Giangiacomo Mora, protagonista della manzoniana “Storia della Colonna infame”.
Enzo Tortora ha impiegato tutte le sue forze nella battaglia per una “giustizia” che fosse “giusta” per tutti: per la sicurezza del cittadino, per le garanzie dell’imputato, per la dignità del carcerato, per il lavoro del magistrato. Responsabilità civile, separazione delle carriere, ridimensionamento della carcerazione preventiva: questi e molti altri temi devono essere al centro di una proposta di riforma della giustizia. Questi devono essere tra le priorità di una nuova agenda politica per il Paese. E lo devono essere specialmente per chi si professa liberale e garantista, per chi – alla maniera dei libertarian statunitensi – “crede nella libertà, senza alcun ‘ma’ dopo”. Perché, come disse proprio Enzo Tortora alla figlia Silvia, «esiste forse battaglia più liberale di questa?».
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