Quasi tutti gli articoli che si propongono di parlare del Graphic journalism (o Comics journalism) mettono da subito l’accento sulla freschezza di questa forma espressiva e sulla sua prorompente carica innovativa. Cercherò di evitare il luogo comune facendo notare che il genere è sicuramente giovane, ma di certo non appena nato, se si tiene conto che Palestina di Joe Sacco, vero caposaldo del reportage disegnato, è stato pubblicato per la prima volta tra il 1993 e il 1995. Più che della faticosa affermazione del giornalismo a fumetti, bisognerebbe ormai discutere della sua istituzionalizzazione, dato che oggi esso trova spazio anche sulle pagine di prestigiosi quotidiani (soprattutto nel mondo anglosassone) ed è sempre più spesso declinato nel formato graphic novel (in allegato al Corriere della Sera ne è recentemente uscita una pregevole raccolta). I motivi di tale successo sono probabilmente da cercare nella grande accessibilità del medium: dei bei disegni colorati, con poche frasi qua e là, sono senza dubbio più attraenti di un muro di parole. Con un po’ di cinismo, si potrebbe insinuare che i fumetti assecondano la pigrizia del lettore contemporaneo, risparmiandogli la fatica della lunga immersione in un articolo.
Penso però che sia necessario far qualche distinguo all’interno della grande massa di lavori genericamente classificati sotto la denominazione di Graphic journalism, discriminando prima di tutto tra le opere propriamente giornalistiche e quelle che invece somigliano maggiormente ad autobiografie o a resoconti di viaggio. In quest’ultimo gruppo inserirei i romanzi di Guy Delisle, fumettista canadese autore di best-seller come Shenzhen, Pyongyang, Cronache Birmane e Cronache di Gerusalemme. Ci sono infatti grandi differenze tra il modo di raccontare di Delisle e quello dei graphic journalist “classici”, ben rappresentati da Joe Sacco (tra parentesi, qualche osservazione sull’ultima opera di Sacco la trovate qui). Queste difformità emergono con maggiore chiarezza se si mettono a paragone le opere dedicate dai due artisti allo stesso tema, la questione israelo-palestinese. Se l’autore di Palestina e di Gaza 1956 entra in prima persona nelle zone di conflitto, intervistando le vittime della guerra e toccando con mano le situazioni più drammatiche, Delisle racconta invece la propria routine quotidiana nel periodo di soggiorno in Israele. Si può dire che nelle storie di Delisle il ruolo di “inviato sul campo”, che è proprio di Sacco, viene ricoperto dalla moglie del fumettista, affiliata a Medici senza Frontiere e direttamente impegnata sulle scene di guerra. Il marito si trova semplicemente al seguito e si limita ad osservare da lontano gli eventi più dolorosi. Le sue avventure sono molto più innocue, tanto che si ha l’impressione che i coniugi vivano in due universi paralleli, pur operando nello stesso paese.
Mentre nei reportage di Sacco i protagonisti sono i cittadini palestinesi colpiti dalle offensive israeliane, l’attore principale di Cronache di Gerusalemme è lo stesso artista, con i suoi faticosi tentativi di ambientamento in un paese straniero e, soprattutto, la costante ricerca di ispirazione per il proprio lavoro. È proprio il tono autobiografico, leggero e ironico (anche se mai del tutto disimpegnato), a far sì che i libri del canadese siano tanto apprezzati. Non si può fare a meno di provare una sincera simpatia, nel senso etimologico di conformità di sentimenti, per il fumettista: esattamente come la maggior parte dei lettori, Delisle non è un eroe né un martire, ma un uomo comune che cerca di arrabattarsi alla meglio tra lavoro, figli e problemi quotidiani. Molto divertente – e quasi simbolico della distanza tra lui e l’autore di Palestina – il momento in cui le autorità israeliane gli negano l’accesso alla Striscia di Gaza: riflettendoci su, il protagonista si chiede se non sia stato scambiato per Joe Sacco.
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