Vagabondando per Berlino capita ancora di scorgere, qua e là, qualche bandiera della DDR, la vecchia Germania Est. Ormai da ventiquattro anni non è più usata ufficialmente visto lo scioglimento della repubblica democratica, ma continua ad essere nei cuori di molti cittadini, tra ricordo e nostalgia. Si tratta di uno dei casi (per i prossimi basta scendere di qualche riga) in cui la frammentazione dovuta all’ideologia politica ha portato alla creazione di nazioni contrapposte, in cui proprio l’ideologia ha giocato un ruolo centrale nella definizione della bandiera di Stato.
Il caso della Germania è del tutto particolare, visto che alla creazione di due nazioni tedesche distinte ed ideologicamente opposte, i ben noti Ovest filoamericano ed Est filosovietico, non si accompagnò l’adozione di due bandiere differenti. Nei primi anni della loro esistenza entrambe le Germanie adottarono i colori tedeschi patriotticamente più sentiti, ovvero quella combinazione di nero, rosso ed oro che si era prima imposta durante le rivolte ottocentesche e aveva poi infiammato la popolazione nel percorso verso la Repubblica di Weimar.
Da parte orientale era però sentita la necessità (non tanto del popolo, quanto più della classe dirigente) di distinguersi nettamente da quell’Ovest definito sprezzatamente “capitalista” e addirittura “fascista”, modificando il proprio vessillo e apponendo ciò che più di tutti l’avrebbe identificato, ovvero uno stemma modello sovietico che contenesse in sé l’essenza della società socialista: il martello della classe operaia, il compasso dell’intelligencija e le corone di spighe dei contadini. Fu questo simbolo a marcare, vessillologicamente parlando, la differenza tra due nazioni, due società, due mondi opposti fino alla caduta del muro di Berlino, che abbiamo festeggiato giusto qualche mese fa. A cavallo della riunificazione tedesca tra 1989 e 1990 la protesta contro il regime socialista trovava giustamente spazio anche sulle bandiere che venivano sventolate nell’allora Berlino Est, dove lo stemma socialista al centro della bandiera veniva tagliato con le forbici e, al suo posto, un semplice buco dava ad indendere l’imminente ritorno all’unità.
Spostandoci fuori dall’Europa si trovano altre situazioni dove l’ideologia ha giocato un ruolo di primo piano nella scelta dei vessilli nazionali. Un esempio ancor oggi nei libri di geografia è quello del Vietnam, che sfoggia un’iconica bandiera rossa con una stella gialla a cinque punte. Inutile spiegare la scelta dei colori e del simbolo, ma non vorrei che qualcuno, ingenuamente, passi oltre: il rosso rappresenta la rivoluzione socialista, la grande stella gialla sta invece per il ruolo centrale del partito comunista, attraverso le cinque “punte” della società (contadini, operai, intellettuali, giovani e soldati).
Un’ideologia condivisa da tutta la popolazione e un rosso socialista che abbraccia tutto il paese. Oggi, forse, dopo che i combattenti comunisti di Ho Chi Minh assunsero il controllo di tutta la nazione alla fine della guerra, ma non fino al 1975. Fino alla fine della resistenza filoamericana nel Vietnam del Sud, sventolava a Saigon uno stendardo più consono alla tradizione vietnamita: giallo lo sfondo, colore della famiglia imperiale di inizio ottocento e della prima bandiera unitaria di fine secolo, rosse le tre bande centrali, che varie interpretazioni ricollegano al trigramma che indica il “sud” (quale è in effetti il Vietnam rispetto al mondo cinese), al sangue dei vietnamiti e alle tre regioni di cui è composto il Paese (nord, centro e sud). La bandiera attualmente non è più utilizzata ufficialmente, ma mantiene il suo significato politico tra i vietnamiti emigrati (soprattutto negli Stati Uniti) in disaccordo con l’eredità comunista del Vietnam odierno.
Chiudendo questa breve carrellata è impossibile non nominare le due repubbliche coreane, un esempio più che mai attuale. La Corea (come la Germania) venne divisa nel 1945 in due zone d’influenza, una americana e l’altra sovietica, trasformatesi poi in due nazioni distinte.
Ad ereditare la bandiera “storica” della Corea, già adottata ufficialmente nel 1883, fu la neonata Corea del Sud. Il significato della bandiera si rifà direttamente alla teoria orientale dello yin yang, simbolo che comprende al suo interno tutti gli elementi del mondo. Yang (la parte rossa) rappresenta gli elementi positivi, yin (la parte blu) rappresenta gli elementi negativi. Unendosi in questo vortice idealmente infinito (che a dir la verità nella versione ottocentesca della bandiera era ancora più pronunciato) questi due opposti vogliono rappresentare la totalità degli elementi del mondo, in lotta tra loro, ma allo stesso tempo in armonia. A contorno i quattro trigrammi agli angoli della bandiera, che rappresentano i quattro elementi (in senso orario partendo dall’alto: cielo, acqua, terra e fuoco). Tutto ciò adagiato su uno sfondo completamente bianco, simbolo della pace e della purezza del popolo coreano.
Il riferimento al bianco e alla purezza delle genti coreane è presente anche nella bandiera dell’altra Corea, quella settentrionale, che si è tuttavia allontanata dall’impostazione storica e, pure in questo caso, ha sviluppato una variante in stile socialista. Due strisce orizzontali blu rappresentano il desiderio di pace del popolo (nord) coreano, mentre la larga fascia rossa centrale indica la via al socialismo intrapresa sotto la guida di Kim Il-sung. Oltre alle sottili strisce bianche, che come accennato rimandano ai tradizionali valori e ideali coreani, il cerchio bianco, leggermente spostato sulla sinistra, pare essere una citazione del simbolo yin e yang, opportunamente prestato alla causa socialista ospitando una stella rossa a cinque punte, che testimonia il ruolo di guida del Partito dei Lavoratori verso la creazione della società socialista. A Pyongyang questa bandiera sventola ancora alta sul pennone… ma per quanto tempo ancora?
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