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22 November 2024

La bugia di Renzi sul fallimentare semestre di presidenza Ue

La bugia di Renzi sul fallimentare semestre di presidenza Ue

Benedetta flessibilità. Da quando la crisi sta attanagliando le economie di mezza Europa, uno dei temi più ricorrenti è proprio la flessibilità di quel Patto di stabilità e crescita, corretto poi dal Fiscal Compact, che ha influenzato le sorti di Governi e Parlamenti. E che continua a far da padrone nel dibattito pubblico.

Da qualche tempo, anche in Italia è tornato di moda e Matteo Renzi l’ha cavalcato come cavallo di battaglia per affrontare il semestre di Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea. Nel suo ultimo discorso alla Camera dei Deputati, qualche giorno prima dell’ultimo Consiglio a guida italiana, ha rivendicato le conquiste europee del suo Governo. Non staremo ad elencarle tutte, ovvio. Anche se non servirebbe molto tempo. Ci limiteremo a quella evidenziata dallo stesso Premier, il quale così si è rivolto ai parlamentari: «in questi sei mesi l’Europa ha cambiato il proprio approccio: (…) il Patto di stabilità e di crescita ha anche la «g» di growth e non soltanto la «s» di stability. È stato un elemento rilevante di novità, perché vorrei ricordare qui che quando venimmo in Parlamento, nel mese di giugno, per dire che avremmo posto il tema della flessibilità e della crescita, pochi pensavano che avremmo avuto successo». Una cosa è vera: nessuno credeva sarebbe riuscito ad ottenere alcunché. E in larga parte è stato proprio così. Più precisamente, se in Europa si parla maggiormente di crescita e flessibilità, se si propongono piani da 300 miliardi d’investimenti (anche se quelli reali sono molti, molti di meno), il merito non è tutto del Presidente del Consiglio, come vorrebbe far credere.

Andiamo con ordine. L’Europa si batte il petto sulla necessità di far qualcosa in più per la crescita e qualcosa in meno per l’austerità da molto tempo. Ancor prima della crisi finanziaria iniziata nel 2008. Già, perché i vari articoli e codicilli del Patto di stabilità e crescita sono nati male, ed usati ancora peggio. Il primo ad accorgersene fu Romano Prodi, dal 1999 al 2004 Presidente della Commissione Europea. Il 17 ottobre del 2002, in un’intervista a Le Monde disse chiaramente che «il Patto di stabilità è stupido, come tutte le decisioni rigide», asserendo fosse anche «imperfetto: bisogna avere uno strumento più intelligente e con maggiore flessibilità». Parole che crearono un putiferio. Solo sei anni dopo crollerà la Lehman Brothers e l’Europa opterà invece per la linea dell’austerità. E tante grazie alla flessibilità e ai consigli del professore.

Prima del drammatico crollo dei mercati, però, a riportare il tema sui tavoli di Bruxelles fu Berlusconi. Il 23 Novembre del 2004 inviò una lettera al presidente di turno dell’Unione Europea, Jan Peter Balkenende. In sostanza Berlusconi chiedeva «un dibattito approfondito sulle rigidità nell’interpretazione e applicazione del Patto Ue, che non è solo di stabilità, ma anche di crescita». Il tutto mentre il Patto del Nazareno era soltanto un sogno da fantapolitica e Verdini non guidava la fronda filo-governativa di Forza Italia. I detrattori di Renzi, dunque, non possono gridare allo scandalo se quelle di Berlusconi erano proprio le stesse richieste che il governo attuale ha fatto diventare il proprio programma politico per l’ultima presidenza di turno italiana: «mettere al centro la crescita».

Insomma, di flessibilità si discuteva ben prima dell’arrivo al governo del Sindaco di Firenze. Anche José Manuel Barroso, Presidente uscente della Commissione Ue che ha da poco ceduto il posto a Junker, in un discorso del 29 ottobre del 2008, senza lasciare spazio a molte interpretazioni, scriveva: «noi dobbiamo continuare ad applicare le regole dell’Ue con la massima flessibilità permessa dai trattati». Inutile ricordare che agli annunci non seguirono i fatti. Anzi. Colpa della Germania, qualcuno dice. Eppure il 25 Novembre del 2008 in una lettera pubblicata simultaneamente da Le Figaro e dal Frankfurter Allgemeine Zeitung, il Cancelliere Angela Merkel e l’allora inquilino dell’Eliseo Nicolas Sarkozy ammisero che «il Patto di stabilità e crescita europeo prevede misure particolari per circostanze eccezionali… e le circostanze attuali sono eccezionali». Alla fine, però, non se ne fece nulla. O non abbastanza. Tanto che nel 2014 la crisi ancora colpisce famiglie e imprese dei Paesi europei e un Premier alle prime armi come Matteo Renzi può riscaldare la minestra e riproporla come se fossero lasagne fatte in casa.

È vero che «grazie al nostro Governo ora in Europa si parla di crescita» e flessibilità, come dice il premier? Come abbiamo visto, la novità è ben poca. Renzi non è stato il primo a parlare di flessibilità, né quello che l’ha fatto con maggior impeto. Nel programma elettorale delle primarie propose lo sforamento del famoso 3% del rapporto deficit/Pil, ma ha successivamente abbandonato l’idea in nome della «credibilità internazionale dell’Italia». Secondo, sono eventi come la crescita dei partiti anti-europeisti e la decisione della Francia di sforare i parametri ad aver spinto anche gli animi più riottosi a sposare la linea della maggiore flessibilità, incalzati con forza crescente da Mario Draghi, che tra una minaccia e l’altra sembra ormai pronto a iniettare liquidità fresca nel sistema economico europeo. Non Renzi, dunque. E quel semestre di Presidenza, decantato come periodo fondamentale per le sorti del Paese, come «occasione da non perdere», si è ormai concluso con un nulla di fatto. Altro che crescita.

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