Ricorreva ieri il terzo anniversario della fuga in Arabia Saudita del dittatore di Tunisia Ben Ali, allontanatosi dal paese in seguito ai disordini scoppiati nel paese nel dicembre 2010. In quei giorni il suicidio dell’ambulante tunisino Mohamed Bouzizi, immolatosi con la benzina il 17 dicembre 2010 nella città di Sidi Bouzid contribuì a gettare ulteriore benzina sul fuoco della rabbia popolare nello stato nordafricano. Il malcontento popolare, già latente per le continue e violente repressioni contro il dissenso attuate dal regime del generale Ben Ali, ulteriormente rinfocolato dalla forte inflazione che andò a colpire i prezzi dei generi alimentari, esplose in maniera definitiva. Le manifestazioni di piazza dilagarono in tutto il paese, e ancorché duramente represse, a poco a poco sgretolarono le fondamenta del potere del regime tunisino. I disordini interni alla società civile tunisina sono stati ritenuti comunemente i primi segnali del cosiddetto fenomeno delle “primavere arabe”, una serie di rivolte che hanno coinvolto tra l’altro paesi come Libia, Egitto, Siria, Yemen oltre che la Tunisia stessa. Ben Ali e la sua consorte Leila Trabelsi furono costretti alla fuga all’alba del 14 gennaio 2011 in Arabia Saudita, da dove non sono mai stati più estradati. Sulla testa dell’ex-dittatore tunisino, salito al potere nel 1985 con l’avallo delle autorità occidentali (in particolare italiane), pendono due condanne definitive a 35 anni per corruzione e appropriazione indebita nonché un ergastolo per la corresponsabilità nell’uccisione di 43 manifestanti durante le manifestazioni esplose in numerose piazze tunisine. Piazze che si sono tornate a riempire in occasione delle celebrazioni per la vittoria alle ultime elezioni del partito secolare Nidaa Tounes ( di Tunisia) sul partito di ispirazione islamica Ennahda, che ha governato il paese dal 2011 ad oggi.
Il quadro politico tunisino sembra ad un significativo punto di svolta dopo la doppia vittoria del partito laico alle elezioni parlamentari di ottobre e al ballottaggio delle presidenziali di dicembre che hanno visto l’insediamento del loro leader Beij Caid Essebsi (a destra nella foto) su Moncef Marzouki (a sinistra), presidente uscente nonché noto esponente per i diritti umani eletto come presidente di unità nazionale nel 2011, immediatamente dopo la caduta del regime. Essebsi, un ottantottenne con alle spalle un ruolo attivo nel regime di Ben Ali, ha avuto il merito di reinventare la propria figura politica come tecnocrate di esperienza e di porsi alla guida di un movimento laico in contrapposizione al nascente movimento islamista Ennahda. In questo senso la vittoria di Essebsi incarna la medesima tendenza al rifiuto del governo di partiti di matrice islamista sovrapponibile al ritorno al potere dei generali in Egitto con la figura di Mohammed al-Sisi, dopo la breve parentesi targata Morsi-Fratelli Musulmani. Il rifiuto dell’islamismo politico si sta rivelando una costante delle esperienze delle cosiddette “primavere arabe”, dove per timore di degenerazioni violente si sta tornando a preferire l’ottica che veda restringere le libertà del cittadino in cambio di maggior sicurezza e de facto il ritorno ai regimi militari precedenti le primavere arabe.
La vittoria del partito di Essebsi ha di fatto posto fine all’era di governi turbolenti a guida del partito islamico Ennahda Le continue proteste per l’incapacità del partito islamico a far fronte ai fenomeni di corruzione e insicurezza generale culminati nell’esplosione della violenza terroristica in alcune regioni tunisine da una parte e nell’omicidio dei due deputati dell’opposizione dall’altro hanno contribuito alla caduta nell’ottobre 2013 alla caduta del governo di Ennahda e alla nascita del governo di unità nazionale presieduto da Mehdi Jomaa. Governo che ha contribuito a promulgare una nuova costituzione nel gennaio 2014 e una nuova legge elettorale approvata nel maggio 2014. Con la riforma del sistema elettorale si sono presentate novità di peso nella strutturazione dei partiti, laddove è stata imposta per legge la parità di quote (50% -50%) fra donne e uomini candidati. Questo ha imposto ai partiti la necessità di confrontarsi con la condizione femminile delle donne tunisine che, benché comunemente ritenute le più istruite del mondo arabo, ancora faticano ad emergere. Faticano ad emergere a livello politico anche per i meccanismi della legge elettorale tunisina, che presenta un proporzionale puro senza premi di maggioranza che certo non favorisce le già poche donne capolista nel neonato sistema partitico del paese magrebino. Tanto che sono state lette più donne (3) nel partito islamico che nel partito di Essebsi (una sola). Un paradosso. Ma le donne tunisine faticano ad emergere a livello giuridico in quanto la costituzione ha stabilito che i diritti delle donne siano “complementari” ai diritti dell’uomo. Un sostanziale passo indietro.
L’interrogativo più urgente riguarda ora la formazione del nuovo governo. Dato che Nidaa Tounes non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi ma solo il 37% dei consensi totali, dovrà necessariamente accordarsi con altre forze politiche. Determinante capire quale sarà la composizione della coalizione di governo, se vi sarà o meno l’inclusione del partito islamico Ennahda in una sorta di governo di unità nazionale, oppure si perseguirà una strategia di contrapposizione fra il fronte laico-secolarista, che vanta tra le sue file anche ex esponenti del regime di Ben Ali, e il fronte islamista. Da capire anche che ruolo deciderà di giocare Slim Riahi, imprenditore con la nomea di ‘Berlusconi di Tunisia’ che ha ottenuto il 4,8% dei voti. Il ruolo che l’Occidente deciderà di giocare o meno nel sostegno a Essebsi (come accaduto in passato con Ben Ali) e al suo governo sarà determinante al pari l’inclusione del partito Ennahda nell’esperienza di governo. L’eventuale esclusione del partito islamista potrebbe certamente portare maggiore omogeneità nel raggruppamento governativo, magari forte di forze come quelle del centro ancora legate al passato regime, e maggiore stabilità e sicurezza nel paese, cosa che Ennahda e i suoi governi hanno dimostrato a più riprese di non essere in grado di dare. Il prezzo da pagare per una apparente pacificazione nell’area sembra costituito dall’esclusione dell’Islam dal potere secolare. Esclusione che rischia però di precludere l’apertura di uno spiraglio nella ricerca di una via araba alla democrazia che tenga conto delle peculiarità dell’area nordafricana. Si rischia che la rondine delle rivolte anti-Ben Ali abbia cantato invano, senza aprire la strada ad una vera primavera di mutamento del quadro sociale prima ancora che politico dei paesi arabi.
(Foto di Marco Castaldelli)
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