Andando per librerie mi sono imbattuto in un curioso volumetto di Roberto Finzi, intitolato “L’onesto porco: storia di una diffamazione”. Come ho scoperto dall’introduzione, l’autore di questo testo è un docente universitario di storia economica, specializzatosi in storia del clima e dell’alimentazione. I suoi interessi risultano eccezionalmente ampi, dalla nascita del pensiero economico moderno con Adam Smith all’antisemitismo in Italia e le leggi raziali. Ha studiato la mezzadria e i problemi relativi alla divisione del lavoro nell’analisi marxista e ha studiato la figura dell’economista e la sua degenerazione. È stato pubblicato un suo saggio dedicato alla figura di Majorana, in cui si evidenzia come lo scienziato, venerato finché fa il fisico, […] nel momento in cui si pone il problema del senso di ciò che egli e i suoi colleghi stanno facendo, il problema del senso della scienza e della ricerca, viene immediatamente bollato dalla comunità scientifica, intollerante come la Chiesa ai tempi di Galileo, e considerato uno squilibrato […].Il pedigree dello studioso insomma si presenta estremamente ghiotto e suscita grandi speranze nel lettore antispecista per “L’onesto porco”. Queste aspettative purtroppo, almeno nel mio caso, sono rimaste largamente deluse.
L’autore comincia col disambiguare la parola maiale, che originariamente indicava il porco castrato. Ne dà conferma già Varrone, che nel suo Rerum rusticarum libri tres scrive “nomen mutant atque e verribus dicuntur maiales” (cambiano nome e da verri sono chiamati maiali). Il maschio intatto del maiale è detto appunto verro e conserva la forza e la fierezza del cinghiale selvatico, suo antesignano. Con garbo ed agilità di penna, Finzi passa in rassegna i punti salienti della tradizione culturale che fa del maiale l’animale immondo, lussurioso, ottuso e sporco par excellence. Giordano Bruno, nel suo Cantus Circaeus, gli attribuisce un aggettivo infamante per ogni lettera dell’alfabeto (A avaro, B barbaro, C coperto di fango e così via). Nei secoli il maiale è sempre stato accusato di essere succube ai piaceri della gola e del sesso: non a caso i seguaci del filosofo Epicuro venivano paragonati a dei maiali per il loro edonismo (lo stesso Orazio, il poeta latino, si definisce con soave autoironia “Epicuri de grege porcum” ovvero un maialino del gregge di Epicuro). Ebrei e musulmani, come è noto, lo considerano ritualmente impuro e si astengono dal mangiarne le carni; ne evitano persino il contatto fisico. Leopardi nello Zibaldone aveva tentato invano di prosciogliere il maiale dall’accusa di sudiceria, con un pizzico di sano relativismo: “è tanto mondo quanto qualunque altro animale, perché quelle materie dove ama di ravvolgersi e che a noi fanno noia, a lui né a suoi simili non danno noia; e quindi per la sua specie non sono sozze”. Venendo all’attualità nostrana, “maiale” è ancora l’epiteto più frequente per redarguire un uomo sudicio o spudorato, così come “troia” (sinonimo di “scrofa”) per le donne fedifraghe o che si prostituiscono.
Il testo più (tragicamente) divertente nel libro di Finzi è quello tratto da L’eccellenza et trionfo del porco (1593) di Giulio Cesare Croce, che riprende il topos antichissimo del Testamentum Porcelli. Ci si immagina infatti che il maiale, in punto di morte, chieda di “rogare” e lasci a’ Librari, e Cartari, i miei maggior denti, da poter con comodità piegare, e pulire le carti. […] a’ dilettissimi Hebrei, da’ quali mai non ho avuto offesa alcuna, le setole della mia schiena, da poter con quelle rappezzar le scarpe, e far l’arte del Calzolaio […]. Lascio a’ Pittori tutti i mei peli, per fare pennelli. […] Lascio le mie ossa a’ giocatori, per far dadi da giocare […] In tutti gli altri miei Lardi, Presciutti, Spalle, Ventresche, Barbaglie [= frattaglie], Salami, Mortadelle, Salcizzotti, salcizze, & altre mie gustose preparationi, institusco, e voglio, che sia mio herede universale il carissimo Economo villeggiante (di cui oggi è l’erede il gastronomo buongustaio). Se al maiale da vivo sono riservate le peggiori offese, da morto è lodato e desiderato (proprio come succede agli uomini virtuosi). In un poemetto giocoso di Antonio Frizzi del 1772, la Salameide, si fa un elogio del maiale: di tutto il creato è l’animale commestibile dalle cui carni si può trarre la maggior varietà e ricchezza di pietanze. Per chi fosse interessato ad una riflessione comparativista tra il sacrificio animale e il martirio cristiano, è interessante invece l’annotazione che fa il novellista del Trecento, Franco Sacchetti: De’ santi si facea come del porco; quando il porco muore, tutta la casa e ciascuno ne fa festa, e così per la morte de’ santi tutto il mondo e tutti i cristiani ne fanno festa.
Più del libro stesso di Finzi però, vale la pena di leggere l’introduzione scritta da niente po’ po’ di meno che Claudio Magris, ormai specializzato nel compilare l’introduzione dei libri altrui. Sono poche pagine, assai piacevoli per le fulminee ed inebrianti citazioni letterarie, e che in certi passi ricordano sorprendentemente la migliore prosa antispecista. La parte iniziale merita di essere riportata: In una sua celebre poesia, Umberto Saba, a proposito della vita, scrive che gli animali “ne dicono il fondo”. Il verso del grande poeta sembra suggerire che gli uomini abbiano in qualche modo perso o forse voluto perdere la capacità di dire, e prima ancora di vedere, quel fondo oscuro, al di qua o al di là del bene e del male e di qualsiasi sistemazione e spiegazione filosofica. Forse lo hanno perduto per poter sopravvivere; il dominio – esercitato, almeno finora, dal genere umano sulla terra e sull’esistenza – non può permettersi di fissare l’orrore e la morte; non a caso gli eroi tragici, che ne fanno o sono costretti a farne esperienza radicale, non dominano l’esistenza ma ne vengono travolti. […] A volte si ha l’impressione che entrare nella testa di un animale sarebbe, per quel che riguarda la conoscenza, non meno conturbante e illuminante che entrare nella mente di Dio o nella fucina stessa dell’universo, vedendola dal suo interno. […] Non si tratta di sopravvalutare l’intelligenza degli animali e men che meno di umanizzarli con smancerie sentimentaleggianti, bensì della sensazione di mondi che contengono, a loro modo, ossia in un modo a noi ignoto, un’immagine del reale e dunque il reale stesso.
Ahinoi l’acume e la squisita erudizione del Professor Magris ricadono presto in una condanna superficiale e snobista dell’animalismo radicale e in un moderatismo dal sapore umanitario. Aggiunge infatti poco dopo: Si rivendicano sempre più diritti per gli animali; si mostra attenzione – talora persino in forme fanatiche – alla loro sofferenza, una parte della quale è inevitabile per la nostra sopravvivenza, ma che bisogna cercare almeno di lenire e limitare in ogni modo. Questa presa di posizione (alquanto deprimente) afferma la necessità inaggirabile per la nostra sopravvivenza di perpetuare le sofferenze dei non umani e pone nel campo dell’impossibile ogni speranza di liberazione animale. Simili affermazioni denotano (sempre che l’autore si riferisca al consumo di carne, come pare) un’ingenua disinformazione sulla pratica del veganismo e la sua compatibilità con la salute umana. Questa leggerezza svilisce il valore dell’alta Cultura di cui fa elegantemente sfoggio Claudio Magris.
Si può fare un discorso simile anche per il Professor Finzi. I suoi tentativi di scoprire le cause della cattiva fama di cui gode tradizionalmente il maiale sono infatti apprezzabili e (per quanto superficiale il livello di comprensione) alcune delle sue intuizioni coincidono con le tesi degli antispecisti. Faccio alcuni esempi. Lo scrittore scorge dietro l’ostilità e lo scherno nei confronti del maiale un velato senso di colpa nei suoi confronti e riconosce che la caterva di caratteristiche morali negative che gli sono state attribuite si riferiscono in realtà all’uomo. Non gli sfugge certamente come il disagio dell’uomo per la sorte che si riserva al maiale derivi in buona parte dalla somiglianza, somatica e caratteriale, tra i due animali: se mi è concesso rubare una citazione di Adorno, tutto ciò che pertiene alla sfera dell’animalità e della fisicità dev’essere espunto dall’umano e attribuito alle “bestie”, perché, una volta vilipese, possano essere divorate in pace. Così pure Finzi intravede dietro alla molteplicità dei nomi che si danno alle carni suine (salame, prosciutto, cotechino et cetera) il tentativo di mascherarne l’origine cruenta, proprio come vuole la teoria di Carol J. Adams del “referente assente“. Il lavoro di Finzi tuttavia rimane tristemente limitato ai confini asfittici del divertissement di un accademico, senza nessuna pretesa di mettere in discussione la funzione alla quale i non umani sono stati relegati. Quel che è peggio, la sua poesia della carnalità, questa liberalità del vivere, che comprende a pari titolo il piacere e il grato rispetto per l’oggetto di questo piacere, questo sentimento bonario, concreto e sensuale del vivere, questo sano ed equilibrato materialismo, premessa del più autentico umanesimo (sono le parole che usa Magris per descrivere l’opera di Finzi!) riecheggiano spaventosamente la retorica propagandistica dello slow food e del mercato della carne biologica. I testi che l‘autore ha scelto di antologizzare nell’appendice del libro rendono bene la sua visione delle cose: vanno dall’origine della mortadella ai racconti beffardi di imbolamento (o furto) del maiale, in cui l’animale recita alternativamente la parte del cadavere o, se gli va bene, della merce ambita da vari contendenti, in questo caso dei ladri e il “legittimo proprietario”. Dopo tante pagine, Finzi non sembra aver afferrato l’abisso di umiliazione e l’oceano di dolore che miliardi di animali nei millenni hanno patito per mano dell’uomo. Dopotutto, secondo lui, il giusto mestiere che spetta al porco resta ancora quello del futuro fornitore di delizie per il palato: grazie tante, i maiali avevano proprio bisogno di questo tipo di riabilitazione!
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