Angelo Grossi è il Fachiro inviato alla 71a Rassegna del Cinema di Venezia 2014.
IN CONCORSO
A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (En duva satt på en gren och funderade på tillvaron) di Roy Andersson (Svezia / Germania / Norvegia / Francia). Voto: 8
Chiusura della trilogia dedicata da Andersson al cosa significa “essere un essere umano” (come dichiarato nei titoli di testa), questo singolare insieme di tableaux vivants che spesso indugia nella metanarrazione si aggiudica un Leone d’Oro coraggioso nel privilegiare un cinema non di narrazione. E’ un film pieno di invenzioni mirabolanti che ritraggono una serie di personaggi mortiferi e catatonici condannati alla reiterazione infinita di azioni assurde e irresistibilmente comiche tra le quali si sbriciola ogni possibile senso dell’esistenza.
The Cut di Fatih Akın (Germania / Francia / Italia / Russia / Canada / Polonia / Turchia). Voto: 3
Terzo capitolo di una trilogia chiamata “L’amore, la morte e il diavolo”, che segue a “La sposa turca” (che dovrebbe trattare l’amore) e a “Ai confini del paradiso” (la morte). Questa volta tocca al diavolo, cioè al male all’interno della Storia, con un’epopea riguardante il sinistro capitolo storico del genocidio degli armeni. Peccato che il risultato sia questo esangue polpettone scontato quanto una fiction televisiva, in cui diventa praticamente impossibile interessarsi al destino di un padre alla ricerca delle figlie in capo al mondo, manco fosse una vicenda difficile da rendere interessante.
Tales (Ghesse-ha) di Rakhshan Bani-Etemad (Iran). Voto: 6
L’intento della regista iraniana è quello di raccontare le contraddizioni del proprio paese attraverso una serie di episodi in cui la narrazione è trascinata dai racconti orali dei personaggi, le cui storie, rimangono fuori campo, attraverso le diverse reazioni di chi ascolta. L’unico episodio che però riesce ad andare veramente a segno è l’ultimo, ambientato in un taxi, e consistente in un delicato dialogo tra il giovane tassista che ha abbandonato l’università e una ragazza sieropositiva, in cui il non detto e i sentimenti trattenuti muovono magistralmente i fili della narrazione. Purtroppo tutto il resto del film è all’insegna del già visto e si lascia facilmente dimenticare. Fosse stato solo un cortometraggio consistente nell’ ultimo episodio, avrebbe pienamente giustificato il premio per la miglior sceneggiatura che il film ha ricevuto.
Le rançon de la glorie di Xavier Beauvois (Francia/Belgio/Svizzera). Voto: 5½
Un intento anche troppo ambizioso quello del regista di “Uomini di Dio”: quello di raccontare la storia del rapimento del cadavere di Chaplin con i toni dei suoi film, sottolineati anche dalla splendida colonna sonora (sprecata) di Michel Legrand, che come nei film di Charlot avrebbe il ruolo di sostituire le parole nel manifestare i sentimenti dei personaggi. Questo confronto volutamente ricercato, però, finisce per sottolineare la fiacchezza del film, che non riesce nell’ imitazione troppo ambiziosa che si impone. La sottolineatura di come i due protagonisti siano più vicini allo spirito del Vagabondo rispetto al mondo che lo circondava nella vita reale, non è priva di interesse, ma troppo fragile per reggere un intero film.
Le dernier coup de marteau di Alix Delaporte (Francia). Voto: 6
Un romanzo di formazione melodrammatico all’insegna del già visto e del già sentito.
Pasolini di Abel Ferrara (Francia / Belgio / Italia). Voto: 4
Nel voler ricostruire gli ultimi giorni di Pasolini, Ferrara non è interessato né a comprendere in profondità quegli anni, né a delineare la complessità del personaggio. Il tutto si limita dunque a un elenco di aneddoti che un giro su wikipedia o su youtube basterebbe a rendere del tutto superfluo.
Tre cuori (3 coeurs) di Benoît Jacquot (Francia). Voto: 4
Cinema tedioso, esangue, privo di vita. Colpo di sonno assicurato.
Manglehorn di David Gordon Green (USA). Voto: 6½
David Gordon Green sembra essere sempre di più una mancata promessa del cinema americano, e sempre più lontani appaiono i tempi del suo fulminante esordio, lo splendido “George Washington”, che fece gridare alla nascita di un Malick in erba. Qui, come nel precedente “Joe”, troviamo Al Pacino nel ruolo di un ex-carcerato depresso che, intrappolato nei rimpianti di un amore idealizzato del passato, non riesce a vivere il presente. Il risultato non è dei peggiori: tratta il tema della depressione in modo anche delicato, con l’uso ricorrente di metafore di facilissima interpretazione (si veda il finale). Un buon prodotto medio, un compitino fatto bene.
The Postman’s White Nights (Belye nochi pochtalona alekseya trayapitsyna) di Andrej Končalovskij (Russia). Voto: 6
Il giovane favoloso di Mario Martone (Italia). Voto: 8½
Sivas di Kaan Müjdeci (Turchia). Voto: 7
Vincitore del premio della giuria, questa opera prima ha rappresentato paradossalmente l’unico vero scandalo del festival, balzando al centro di pretestuose polemiche riguardanti le cruente lotte tra cani che mostra. Inoltre è stata stroncata dai critici, che non sono riusciti a spiegarsi la presenza in concorso di un film tanto sgraziato. E’ vero che al festival erano presenti opere prime molto più convincenti (e addirittura una per cui spenderei la parola ‘capolavoro’, il serbo “Figlio di nessuno”, visto nella Settimana della Critica”). E’ anche vero che il film trae forza proprio dalla sua sgraziatezza: girato con una telecamera mobilissima, ha al centro un bambino, Aslan (bravissimo l’interprete), tutt’altro che carino e simpatico, che sfoggia un turpiloquio degno di uno scaricatore di porto d’altri tempi, mostrando un mondo, quello dell’ Anatolia contadina, all’insegna della lotta e della sopraffazione, in cui i sogni non esistono e dove ognuno deve accettare il suo ruolo di dominatore o dominato. Il risultato è un “Belle e Sebastien” brutto, sporco e cattivo, non privo di interesse, ma lontano dall’essere un esordio indimenticabile.
Anime nere di Francesco Munzi (Italia / Francia). Voto: 5
Un modesto romanzo criminale ambientato in una Calabria sospesa tra una tribalità atavica e l’affacciarsi timido e soffocato della modernità. Purtroppo le evoluzioni dei personaggi sembrano emergere dal nulla, perché non sorrette da una sceneggiatura che ne sappia illuminare i percorsi interiori.
The Look of Silence di Joshua Oppenheimer (Danimarca / Finlandia / Norvegia / Indonesia / Gran Bretagna). Voto: 8
Fires on the Plain (Nobi) di Shinya Tsukamoto (Giappone). Voto: 5
Tsukamoto questa volta usa lo stile parossistico e allucinato a cui ci ha abituati per inquadrare la guerra. Purtroppo si limita a colpire allo stomaco e scioccare, soffocando qualsiasi tentativo di costruire una riflessione che abbia un minimo di spessore.
Red Amnesia (Chuangru zhe) di Wang Xiaoshuai (Cina). Voto: 9
A parere di chi scrive, il film migliore del concorso. Storia di fantasmi del passato e di riscatti impossibili, il film gode di un equilibrio riuscitissimo tra una regia, una sceneggiatura e una recitazione degli attori di stupefacente solidità. Riesce a tenere sempre alta la tensione, ma anche a creare uno spaccato a tutto tondo di un Paese e di una condizione esistenziale, con un finale struggente che non si dimentica.
ORIZZONTI
Goodnight Mommy (Ich seh/Ich seh) di Veronika Frank e Severin Fiala (Austria). Voto: 8½
La moglie di Ulrich Seidl, dirige a quattro mani con Severin Fiala questo horror dalla confezione incantevole. Una madre torna a casa dai figli gemelli, di dieci anni, con il volto ricoperto di bende. Pare irriconoscibile nel suo carattere che ora appare dispotico, e non è chiaro se sia davvero lei. I misteri che si affollano accanto questo ritorno sono tanti, e il tutto sfocerà in un sadico film di tortura, ai confini della sopportabilità. Il finale a sorpresa riduce il film ad essere un one-shot movie, stile “Il sesto senso”, e questo è probabilmente l’unico limite di un film di ipnotica bellezza che mantiene per tutta la sua durata una tensione palpitante, attraversato da un sottile sadismo che lo avvicina molto al cinema del connazionale Haneke. A livello tematico andrebbe confrontato con “Il Ritorno”, sottovalutato capolavoro di Andrej Zvyagintsev, che vinse il Leone d’oro nel 2003. Uno dei migliori film visti a Orizzonti.
Réalité di Quentin Dupieux (Francia/Belgio). Voto: 6
Film genialoide e delirante sui confini tra realtà e finzione, pieno di arditi giochi intellettualistici e di giochi di scatole cinesi, con un occhio all’ ultimo Lynch. Non riesce ad andare oltre una brillantezza fine a se stessa, tutto sommato fredda e sterile.
Belluscone – Una storia siciliana di Franco Maresco (Italia). Voto: 8
Magnifico e importante film su un film che non si è fatto, che descrive magistralmente uno spaccato inquietante dei rapporti tra mafia e berlusconismo, non solo ai piani alti ma anche a livello popolare.
Court di Chaitanya Tamhane (India). Voto: 7
Insolito film giudiziario in cui, più che all’esito del processo, l’esordiente regista (classe 1987), sembra interessarsi alle vite private dei personaggi, ai tempi morti che le caratterizzano, scavando su alcune contraddizioni dell’ India contemporanea. Un esordio apprezzabile, ma non folgorante: c’è troppo distacco rispetto ai personaggi. Vincitore del primo premio del concorso Orizzonti, nonché del premio opera prima Luigi de Laurentiis. Troppa grazia.
SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA
Figlio di nessuno (Ničije dete) di Vuk Ršumović (Serbia). Voto: 10
Il trentanovenne regista esordiente riesce a costruire una sorprendente parabola sulla condizione umana, attraverso la vicenda del percorso di civilizzazione all’interno di un orfanotrofio di un ragazzo selvaggio, ritrovato nei boschi della Bosnia. Il tutto calato nel periodo storico dello sfaldamento della Jugoslavia, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Film circolare, apparentemente classico, in realtà di una complessità e compiutezza stupefacenti. Il vero capolavoro dell’intero Festival. Avrebbe meritato di essere in concorso. E di vincere il Leone d’oro.
Una bara da seppellire (Binguan) di Xin Yukun (Cina). Voto: 7
Un film che utilizza curiosamente lo stesso meccanismo narrativo visto quest’anno ne “Il capitale umano”, quello non nuovissimo della narrazione dello stesso evento da più punti di vista (ricordate Rashomon?). In questo caso al centro della vicenda c’è un omicidio. Il film è più che discreto, con un buon ritmo. Tuttavia contiene un mistero insolvibile: per non si capisce quale motivo, in contesti e momenti diversi, ogni volta che viene inquadrata una televisione, questa trasmette sempre lo stesso documentario sugli oranghi!
The Smell of Us di Larry Clark (Francia). Voto: 5
Larry Clark si trasferisce in Francia, ma gira sempre lo stesso film sugli adolescenti sbandati, sempre diviso ipocritamente tra le lacrime di coccodrillo e la celebrazione dell’età inquieta, per cui il regista sembra avere un ossessione che sconfina nel feticismo più spinto. Clark manca di vero amore per i personaggi, che inquadra con uno sguardo a metà tra l’avidità di un voyeur e la freddezza di un documentario di Super Quark.
Messi di Álex de la Iglesia (Spagna). Voto: 3
A cosa serviva la firma di de la Iglesia (mai così anonimo) per costruire quella che è a tutti gli effetti una semplicissima puntata di “Sfide”?
I nostri ragazzi di Ivano De Matteo (Italia). Voto: 5
Film diretto, interpretato e scritto con gli stilemi di una fiction televisiva di raiuno, con Lo Cascio mai così annoiato nell’interpretare il solito ruolo di buon borghese apparentemente (in questo caso) illuminato (ancora? ma quanti anni sono passati dalla Meglio Gioventù?). Il finale è decoroso e aggiunge un briciolo di spessore all’operazione, che però non riesce a salvarsi in toto.
The Farewell Party (Mita Tova) di Sharon Maymon, Tal Granit (Israele). Voto: 4
La colpa peggiore di questo film sull’ eutanasia è la pressoché totale mancanza di problematizzazione rispetto a un tema così complesso e delicato. Il film prende una netta posizione, e fin qui niente di male, ma lo fa con l’unilateralità di uno spot televisivo, e con estrema superficialità. Un po’ di polifonia non avrebbe guastato.
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