L’attesa sta per finire. Rispettando una tradizione fatta di tempi lunghissimi tra un lavoro e l’altro, il fumettista americano Charles Burns ha pubblicato in patria Sugar skull (l’edizione italiana è in arrivo nelle prossime settimane), ultima parte di una trilogia iniziata nel 2011 con X’ed out e proseguita nel 2012 con il secondo capitolo, The hive. L’uscita consentirà, finalmente, di dare un giudizio definitivo sul progetto che ha impegnato l’autore negli ultimi anni, ma pure di fare un bilancio più generale sulla direzione intrapresa dalla sua attività fumettistica.
Charles Burns, per chi non ha familiarità con il fumetto americano underground, è stato uno degli artisti più significativi tra anni ’90 e anni Zero: il suo Black hole è universalmente riconosciuto come una pietra miliare del genere graphic. La trilogia di X’ed out, prima pubblicazione dopo il capolavoro, è stata guardata con curiosità da critici e fan, ansiosi di scoprire se la nuova uscita avrebbe seguito la traccia della precedente oppure avrebbe battuto altre strade. Domande legittime, se si considera che Burns è stato spesso accusato di “raccontare sempre la stessa storia”. Col passare del tempo, però, mi pare che emerga con sempre maggiore chiarezza il ruolo centrale di Black hole nella sua carriera fumettistica: guardando indietro, è difficile non considerare le opere precedenti, in particolare le storie poi raccolte nel volume Big baby, come “preparatorie” rispetto al capolavoro. In esse emergono già, anche se con minore incisività, i tratti tipici di tutte le opere burnsiane, che potremmo sintetizzare come un sapiente miscuglio di horror e travagli adolescenziali. Tematiche che trovano un’espressione più compiuta in Black hole, una horror story non tradizionale, ricchissima di significati più o meno nascosti, celati sotto una coltre di immagini simboliche e ricorrenti. Una continua sfida visuale al lettore, chiamato ad un lavoro supplementare rispetto al semplice passaggio da una vignetta all’altra (un’analisi di alto livello su Black hole la trovate qui).
Nei primi due capitoli della nuova trilogia sembrano convivere due spinte opposte, una innovatrice e una conservatrice, con una prevalenza delle permanenze rispetto alle rimozioni. Burns infatti racconta ancora una volta “la stessa storia”, mostrando però fin dalle prime tavole alcuni elementi di novità. Gli ingredienti di base del nuovo lavoro sono i medesimi del precedente: storie di adolescenti che si ritrovano in situazioni allucinate e inquietanti, con le normali paure legate alla crescita e alle nuove esperienze (sesso e droga in particolare) che si legano in modo malsano a timori molto più grandi, del tutto impossibili da affrontare. Il protagonista è Doug, un ragazzo ossessionato da visioni notturne che si ripetono sempre uguali, portando alla luce aspetti nascosti e dolorosi del suo passato. Un susseguirsi di immagini spaventose ma fin troppo reali, contro cui le pillole non possono fare nulla. Come al solito l’autore riesce a trascinarci in una dimensione estremamente sgradevole, mettendoci nei panni di un teenager che, come molti suoi coetanei, si sente sempre fuori posto, inadatto a stare con gli altri.
La differenza principale con i precedenti consiste, ovviamente, nell’uso del colore, per di più sempre sgargiante, al posto del bianco e nero; i disegni seguono invece il tradizionale stile di Burns, che deve molto alla Pop art americana (da Roy Lichtenstein in giù). A livello di contenuto, si nota una componente molto più decisa di citazionismo: i riferimenti più marcati sono ad alcuni classici del fumetto (nei suoi deliri psichedelici il protagonista ha le fattezze di Tin Tin) e della letteratura (in più di un’occasione viene nominato William Borroughs). È poi evidente la maggiore presenza di aspetti onirici-allucinatori, che arrivano ad occupare la maggior parte della storia, rendendola ancor più enigmatica delle precedenti: solo con l’ultimo capitolo la matassa verrà, forse, sbrogliata e la complessa rete di simboli ricorsivi troverà una spiegazione coerente. Tutto o quasi è raccontato attraverso il filtro del delirio o della visione, eliminando quasi completamente gli aspetti thrilling presenti in Black hole. Era proprio il bilanciamento perfetto tra sogno e azione a rendere Black hole un’opera godibile a più livelli, come è proprio dei capolavori letterari. Il graphic novel può essere letto semplicemente come un’avvincente storia di mostri, omicidi e malattie misteriose, ma ad un lettore più attento è lasciata la possibilità di esplorare la sua ricchezza iconografica e di creare autonomamente dei collegamenti, scoprendo una fitta rete di messaggi nascosti. Per il momento, ma aspettiamo la conclusione per sbilanciarci, X’ed out non è arrivato a questi livelli: l’impatto visivo è eccezionale, ma nel complesso il puzzle fatto di conscio e di inconscio e la continua sfida al lettore per mezzo di indizi e allusioni hanno un che di manieristico. Ma da Charles Burns ci aspettiamo un guizzo finale che spazzi via tutte le discussioni e metta il sigillo su un progetto ambizioso e affascinante.
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