Se volete farvi del male e al tempo stesso accrescere la vostra consapevolezza dell’ecatombe che ogni giorno si consuma (e di cui in vario grado siamo tutti responsabili), non c’è niente di meglio di un buon documentario di propaganda vegana. Ve ne propongo tre: Earthlings, Il biglietto di ingresso e Facing animals.
Earthlings (2005), realizzato da Shaun Monson, è ormai un classico nell’ambiente animalista. La voce narrante è di Joaquin Phoenix (attivista animalista nonché splendido attore cinematografico hollywoodiano), la conturbante colonna sonora è opera di Moby. Earthlings è un concentrato straziante di retorica antispecista e scene rivoltanti. Racconta in cinque capitoli lo sfruttamento degli animali: come pet, come cibo, come abbigliamento, come svago e come strumento di ricerca scientifica. Dopo un’introduzione potente per le ingiustizie che disvela, ma anche un tantinello melensa per il suo retrogusto olistico new age (“al fondo delle cose, tutti i viventi sono legati insieme… make the connection!”), dopo una carrellata di bellezze naturali con i vari animali inseriti armonicamente nel loro contesto, arriva la parte splatter. Gli animali “da pelliccia” scorticati vivi, le grida di terrore dei maiali agonizzanti, la folle fuga di un elefante imbizzarrito e crivellato di proiettili vi lasceranno traumatizzati per settimane.
I più avveduti tra gli antispecisti si sono resi conto di come questa attitudine a colpevolizzare le persone costringendole all’esposizione di immagini violente (come fosse una sorta di contrappasso che meritano di subire, per espiare le loro colpe) sia per lo meno problematica e insufficiente di per sé per porre fine all’olocausto degli animali, a meno che la campagna per la loro liberazione non si inserisca in un progetto di trasformazione politica più vasto e lungimirante. Tuttavia al terrorismo psicologico di Earthlings va riconosciuto il merito di aver smosso dal loro stato di inedia un gran numero di individui e di aver favorito la costituzione di una base solida di animalisti militanti.
Il nostro attaccamento morboso per gli animali “da compagnia” è direttamente proporzionale all’indifferenza per quelli che consideriamo “da reddito”. Lo specismo è una forma palese di schizofrenia, non c’è niente di razionale nell’arbitrio con cui distribuisce i destini dei non umani (alcuni accuditi e coccolati, altri trascurati e trucidati). Le sue radici affondano così profondamente nell’inconscio della cultura collettiva che per scuoterle non può certo guastare una dose massiccia di realismo raccapricciante, che strappi le persone dall’iperuranio di menefreghismo in cui vanno fluttuando e le costringa a piantare i piedi nel pantano insanguinato in cui vivono gli Altri, sperando che ne traggano le dovute conseguenze. Ecco, di questo realismo raccapricciante in Earthlings se ne trova parecchio.
Il biglietto di ingresso (2014), di Lorena Melchiorre, dura solo 25 minuti e a differenza del filmato precedente non mostra immagini particolarmente ripugnanti. Contiene le interviste ad alcuni tra gli autori più rappresentativi del panorama antispecista italiano, inframezzate a scene di reclusione o di abbattimento che confermano amaramente le parole degli intervistati: i pescatori, con una base musicale rock, arpionano i tonni e li issano sulle navi; le oche sono immobilizzate ed ingozzate per il foie gras; i polli stanno stipati nelle gabbie metalliche, rischiarate dalla luce pallida delle lampade a neon; i maiali vivono intrappolati tra sbarre di ferro; le mucche sono fecondate artificialmente e i loro nati, una volta cresciuti, sono messi in vendita ad una fiera come all’asta degli schiavi. Colpisce la distonia tra gli esterni (anonimi capannoni nelle campagne battute dal vento) e le riprese all’interno degli allevamenti, afosi, affollatissimi e malsani. Il filmato si apre con la testimonianza del giornalista e scrittore Lorenzo Guadagnucci, che nel 2001 al G8 di Genova fu vittima di pestaggio da parte della polizia, mentre si trovava in una scuola occupata. Curiosamente Guadagnucci paragona quell’esperienza alla mattanza dei tonni, allo stesso modo in cui tanti reduci dei campi di sterminio del Novecento si sono paragonati agli animali imprigionati e massacrati per produrre carne.
Fortissima la scena conclusiva, in cui un possente torello bianco, dalla fronte ricciuta, viene condotto al patibolo. Le immagini di repertorio che la regista ha selezionato non demonizzano il personale del mattatoio, impegnato in mansioni che sono divenute ormai dei banali automatismi. Appena l’animale viene fatto scendere dal camion si trova come ad una sorta di dogana, dove i suoi dati sono controllati su di un documento (un passaporto bovino!) che ne indica il sesso, l’età, la razza, la provenienza e l’identità del padrone. Dopo la pesatura, al ronzio dei computer e delle macchine ticchettanti segue lo schiocco nitido della sparachiodi. Notevoli anche alcuni dettagli nelle scene precedenti: la mosca che zampetta incurante sulle carte degli impiegati, mentre contano il bestiame, e la ragnatela tessuta sopra le teste degli animali prigionieri, dentro a una stalla. Ci si potrebbe vedere (alla Bunuel) il marciume, il guasto morale che si annida dietro la scorrere implacabile di questo processo meccanizzato, che da una nascita innaturale (e calcolatissima) trascina infiniti suini, uccelli e bovini ad una morte precoce. Ma questi insetti, queste comparse, li potremmo anche interpretare positivamente come l’avanzare silenzioso della vita animale che sfugge, indomabile e latente, alla tecnica e al dominio.
Facing animals, girato dal regista olandese Jan Van Ijken tra il 2008 e il 2011, è un piccolo capolavoro. Crea un effetto di straniamento ponendo la telecamera tra gli animali o mostrando comunque il mondo dal loro punto di vista. In questo modo risaltano tutte le contraddizioni nel rapporto bizzarro tra umani e non umani, emergono gli animali nella loro paziente o festosa semplicità (quando sono vezzeggiati e coperti di attenzioni, quando sono lasciati scorrazzare in pace) e nella loro aura misteriosa di vittime innocenti (quando sono deportati o mutilati). Ijken non riprende le uccisioni, né si sofferma sulle piaghe o le brutalità subite, quando mostra i pulcini femmina debeccati o i cuccioli di maiale, a cui vengono amputate la coda, i testicoli e le piccole zanne. L’assenza di un Virgilio, di una voce che commenti e ci guidi lungo i gironi scoscesi dell’inferno animale, ci abbandona smarriti di fronte a tanta follia, privi di un orizzonte di senso in cui collocare da una parte gli animali umanizzati e imbellettati che sono iscritti ai concorsi di bellezza, dall’altra quelli feriti e violentati nelle fabbriche di carne, uova o latte. Le due scene iniziali sono altamente esemplificative. Il video comincia con la sepoltura cristiana di un cane in un cimitero innevato: i celebranti si congedano commossi dal compagno di una vita, in lontananza rintoccano le campane, sulla stele vicina si vede la fotografia di un barboncino defunto, con i suoi grandi occhi lucidi. La scena immediatamente successiva invece narra l’Odissea breve dei pulcini maschi, che fuoriescono da un guscio d’uovo, tra deboli conati, sono gettati dentro a un carrello e una volta caduti maldestramente sul nastro trasportatore (non potendo produrre uova) vengono passati nel tritacarne.
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