Domani è giovedì grasso, che in Valdarno si chiama Berlingaccio […]. C’è un proverbio: ‘Berlingaccio, chi non ha ciccia, ammazza il gatto’. Perché siamo a febbraio – febbraio gattaio! – e uno dei grandi piatti del Valdarno era il gatto in umido. Perché la gente non mangia il coniglio, non mangia il pollo, non mangia il piccione eccetera? Il gatto tenuto tre giorni nell’acqua corrente del torrente Ciuffenna veniva fuori con le sue carnine bianche e t’assicuro – io l’ho mangiato tante volte – che è una delizia. Perciò ora ci saranno le lettere dei cosi… gli amanti della natura! Perché non difendono i conigli? Questi son dei razzisti!
Sono passati esattamente cinque anni (un lustro!) da quella radiosa mattinata del 15 febbraio 2010, in cui Beppe Bigazzi fu epurato dalla Rai per aver raccontato in diretta la storia di quando mangiava il gatto in umido. Bigazzi, giornalista e gastronomo (oggi 82 anni), fu costretto a dare le dimissioni quando, dopo l’intervallo pubblicitario, rifiutò di abiurare quanto aveva appena detto davanti alle telecamere della Prova del Cuoco.
La sua uscita esilarante aveva lasciato basita la soubrette Elisa Isoardi, amante degli animali e conduttrice di importanti programmi televisivi come Pongo e Peggy – Gli animali del cuore (2008) e A come animali (2010), dedicati proprio ai pelosetti di casa. Aveva scandalizzato un nutrito pubblico di telespettatori e suscitato le ire di alcune associazioni protezioniste/zoofile impegnate nelle colonie feline di Roma. Bigazzi per fortuna è stato riaccolto nel febbraio 2013 in seno a mamma Rai e da allora ha potuto continuare indistrubato i suoi senescenti stacchetti culinari: tutto è bene quel che finisce bene insomma.
Questo modesto post non ha altra pretesa che di commemorare quell’episodio delizioso, da cui tuttavia potrebbe prendere le mosse un’approfondita riflessione. Ci limitiamo a qualche considerazione elementare. All’amore sdilinquito per i cosiddetti animali edipici, gli animali in cui vediamo un riflesso di noi stessi e che completano la triade familiare mamma-papà-fratellino (“Il mio Otello in umido no!”, geme la Isoardi), corrisponde l’indifferenza acritica per la condizione di quelli catalogati come “da reddito”. Cosa ci sia di più morale nel mangiare una mucca piuttosto di una gatta, resta tutto da spiegare. Bigazzi ha proprio ragione a chiamare “razzisti” coloro di cui prevede l’indignazione, anche se sarebbe più esatto usare la parola “specisti” per indicare quelli che operano una discriminazione tra gruppi di specie. Purtroppo non solo l’uomo della strada (come Beppe Bigazzi e i casalinghi che lo seguono), ma una buona parte dello stesso movimento animalista non ha ancora assimilato i concetti di specismo e antispecismo. Magari, con accenti vagamente razzisti e un vano senso di superiorità, si scagliano contro l’uso dei popoli asiatici di nutrirsi di animali che risultano indigesti alla sensibilità occidentale: non solo gatti e cani, ma anche scimmie, delfini, insetti e via di seguito. Trovano raccapricciante il pensiero di cucinare gli animali “domestici”, ma non fanno una piega (o comunque non protestano con abbastanza energia) davanti al massacro di quelli comunemente riconosciuti come “uccidibili”. Significativa infine la confusione da parte del Bigazzi tra gli animalisti e gli ambientalisti, “gli amanti della natura”, che conferma quanto dicevamo in un post precedente su questo classico equivoco.
Solidarietà dunque a Beppe Bigazzi, che eleggiamo a eterno paladino di uno specismo ingenuo (si spera ancora correggibile) e condanna senz’appello allo specismo ipocrita dei vertici Rai, che radiarono il vecchio toscano pur di salvaguardare la loro finzione di una cucina etica, in cui “conigli, polli e piccioni” possono essere messi pacificamente ai fornelli, ma i gattini proprio no.
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