Titolo originale: Fifty Shades of Grey
Regia: Sam Taylor-Johnson
Sceneggiatura: Kelly Marcel, Patrick Marber, Mark Bombach
Anno: 2015
Durata: 125′
Nazione: USA
Fotografia: Seamus McGarvey
Montaggio: Susan Littenberg, Sabrina Plisco
Scenografia: David Wasco
Costumi: Mark Bridges
Colonna sonora: Danny Elfman
Interpreti: Dakota Johnson, Jamie Dornan, Jennifer Ehle
TRAMA
La storia d’amore tra Anastasia Steele, giovane studentessa e Christian Grey, uomo d’affari, bello e affascinante. Ma l’ingenua Anastasia presto scoprirà che il giovane misterioso nasconde segreti inconfessabili.
RECENSIONE
Cinquanta sfumature di grigio… torpore, aggiungeremmo. Grigio è infatti il colore che meglio rappresenta il primo episodio tratto dalla trilogia della scrittrice inglese E. L. James. La trama, che già dai trailer “esclusivi” si preannunciava scontata, è appunto inconsistente. L’ incontro tra i due protagonisti è immediato, avviene dopo soli tre minuti dall’inizio della pellicola; e da subito si capisce che sarà amore. I dialoghi adolescenziali, patetici, ricordano le meno (più?) riuscite love story americane degli ultimi decenni e sono esasperati da alcune esclamazioni del protagonista – il bel milionario Christian Grey, l’uomo che “esercita il controllo su ogni cosa” – che proprio non funzionano e si trasformano, senza volerlo, in battutacce da bar sport (“Io non faccio l’amore. Io scopo. Forte”). Con tutto rispetto per i bar sport.
Tuttavia, cercando di trovare un briciolo di originalità, qualcosina di nuovo c’è. Qualcosa di mai visto fino a ora (o quasi). Sto parlando dell’introduzione, seppur minima (qualche frustata qua e là), a pratiche BDSM in un film blockbuster. Né Nymphomaniac, né Secretary o Légami!, per citarne di famosi, avevano queste proporzioni, in termini di budget o incasso al box office. Non si erano mai usati termini tecnici come “fisting”, “safe words” o “dilatatori anali; ed era ora, nell’epoca del porno home made e del boom di portali come kink.com. Non che il sesso debba necessariamente comprendere bondage o sadomaso, ma nemmeno considerarli un male assoluto, qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi.
Già in passato varie serie televisive americane hanno avuto il merito di sdoganare tabù sessuali; si pensi al successo di Sex and The City, Will & Grace o Friends, quando l’omosessualità venne resa “normalità” nel ’96, mandando in onda il matrimonio tra Carol e Susan davanti a 31 milioni di americani. Forse è arrivato il turno del BDSM, anche se in Cinquanta sfumature viene affrontato con eccessivo machismo e romanticismo. Il ricco, freddo e potente seduttore che umilia lei, giovane, indifesa e innamorata. Non ci siamo. Per il prossimo capitolo, sempre se uscirà, datevi da fare.
Voto: 5
COMMENTO
La Prima volta
Ieri sera la mia coinquilina, una mia compagna di corso ed io siamo andate a vedere “Cinquanta sfumature di grigio”. In anteprima mondiale, just to say.
Breve riassunto: Anastasia Steel è una studentessa sfigata che incontra un uomo indiscutibilmente perfetto. Christian Grey è perfetto nel senso che è intelligente, figo e ricco è dire poco. Ah, ed è impegnato in buone cause tipo debellare la fame nel mondo. S’innamorano. Ma, mentre lei preferirebbe andare al cinema, lui vuole legarla e sculacciarla, perché non ha ancora superato i suoi traumi infantili. Quindi c’è anche tutta la questione delle insicurezze, che lo portano a sbucare da ogni angolo per controllarla, ma che fanno di lui un bene ancora più prezioso per ogni donna assetata d’amore.
Nata come una fan fiction spinta ispirata a “Twilight”, non è altro che una fiaba per adulti.
Che poi il libro sia scritto come è scritto aggiunge soltanto un merito al genio dell’autrice, E.L. James. Cioè, vi rendete conto? Questa si è messa lì e ha buttato giù probabilmente in meno di qualche mese, non uno, bensì tre libri. Parlando di quello che le pareva, nel modo in cui le andava di farlo (male). E ha fatto i miliardi. Rifletteteci sù.
Scriverò questa frase con la consapevolezza di poter essere presa a pesci in faccia, ma forse non hanno torto i fan. Sapete perché? Perché in casa di mia nonna ci sono scatoloni degli Harmony che leggeva mia zia e da nessuno di questi è stato tratto un film. Da piccola ne ho letti un paio, perché si legge tutto e perché mi serviva capire come funzionano certe cose. Ma semplicemente il contenuto di quei volumetti rosa era molto più pudico di quanto facesse presagire, e sperare, l’immagine stampata in copertina sullo stile della “Domenica del corriere”.
Da quando sono tornata dal cinema ieri notte, non faccio che domandarmi: cosa vorrebbero trovare i lettori nella mia recensione?
Il punto è che non sapevo se parlarvi del film. Intendo dire: del film, in sé. Mi sono immaginata cosa avrebbero scritto gli altri giornalisti italiani, quelli veri.
Copia-incolla dei servizi usciti all’epoca della pubblicazione dei libri, con la malizia aggiunta delle immagini, ci saranno quattro tipi di pezzi.
La critica bigotta: la maggioranza, non soltanto sulle pagine del bollettino parrocchiale, probabilmente descriverà “Cinquanta sfumature di grigio” come un film all’insegna della lussuria e del peccato dove non si fa l’amore ma, ahimè, si scopa (cit. Christian Grey).
La critica progressista: le femministe e quei depravati che praticano il bondage ogni sabato sera, insomma. Bene, mi è sembrato di capire che loro siano incazzati neri perché Ana e Christian fanno fare una figura di merda a tutti. Come se fosse indispensabile aver subito abusi da giovani per avere un interesse verso corde e frustini, le sole cose capaci di soddisfare i gusti perversi delle menti disturbate. E poi c’è questa figura della donna sottomessa e controllata, ma consenziente perché innamorata, che ovviamente sbatte alla velocità della luce contro parole come stalking e abuso.
Come dargli torto.
Quelli che non hanno letto il libro: e ancora si stupiscono di vedere una cagata. Loro volevano una roba molto più spinta, uscire dalla sala con la bava alla bocca. Non hanno capito che il punto, e il segreto del successo, non sono le perversioni sessuali del protagonista, ma inequivocabilmente la love story. Poi tutto il resto sono chiacchiere, uno sfogo per casalinghe mature e una miniera d’oro per la cara E.L. James.
Le riviste femminili: come dicevo, è una fiaba per adulti o meglio per adulte. Entusiaste per il romanzo che ha finalmente aggiunto quel-non-so-che alla loro vita matrimoniale, le lettrici non-femministe aspettavano soltanto di dare un volto e un corpo alle loro fantasie. E allora ecco gli speciali che, se avessimo il buon cuore di leggerli, ci insegnerebbero tutto quello che serve per intrattenere una sana vita di coppia sotto le lenzuola: da dove comprare i bustini di pelle, a come gestire un “uomo difficile”. Se non li leggete, poi non lamentatevi.
Da domani l’Internet sarà sommerso da tutte queste pallosissime dissertazioni.
Di cos’altro avrei potuto scrivere? Poi a me è pure piaciuto. Mi sono piaciuti la fotografia, l’uso intelligente dei colori e Dakota Mayi Johnson che è bravissima nella parte di Anastasia. Ho riso. Mi sono anche addolorata per Jamie Dornan, condannato al carattere del suo personaggio e, cosa più grave, alle sue battute. Sono soddisfatta perché la regista, Sam Taylor-Wood, ha fatto un buon lavoro. Ha superato le mie aspettative, non mi sento offesa come donna e se vorrò scandalizzarmi mi guarderò un documentario.
Ma era chiaro che scrivere una recensione positiva poteva farmi perdere la dignità. Partendo dal presupposto che il film lo andrete a vedere tutti (o lo guarderete in streaming, è inutile nasconderlo), ho convenuto che la descrizione della serata fosse l’unica cosa che nessun altro potesse mettervi a disposizione.
Partiamo dal perché.
L’anno scorso per un po’ abbiamo convissuto in tre in una casa di troppi pochi metri quadri e senza internet. A un certo punto, una si alza e propone: “Facciamo un ciclo di letture serali!”. Era una buona idea, da Settecento illuminato. Ma presto abbiamo perso il senso della misura perché qualcun altro deve aver detto una frase come: “Sì, ma niente di serio”. Non farò nomi, potrei essere stata io. L’abbiamo finita che una delle tre è tornata dall’aeroporto con “Cinquanta sfumature di grigio”. Lo abbiamo letto come in “Piccole donne”: alla luce fioca del mio lampadario che funziona male, la proprietaria-oratrice seduta su una sedia a dondolo e le altre due intorno ipnotizzate dall’accento sardo.
Non potevamo perderci la versione cinematografica.
Così siamo andate alla première mondiale. L’ho già detto, ma di tirarsela non si finisce mai. Alla Berlinale, nello Zoo Palast. Che già è una location tamarra. Tende dorate, per la programmazione normale lasciano cadere una cascata di acqua vera davanti allo schermo prima della proiezione. Così, a buffo.
Solo che ottenere un biglietto per il film è stata un’impresa incredibile. Una roba da Amaro Montenegro.
Avevamo rinunciato alle prevendite online, uscite domenica mattina e scomparse in un batter d’occhi. Non restava che mettersi in coda. Come le fan più sfegatate, sprezzante del pericolo, di fronte al volto enigmatico di una cassiera poco convinta sulla disponibilità di altri biglietti, la mia amica non ha fatto una piega. Ha preso pretzel e bevande e ha aspettato. Aspettato. Aspettato. Aspettato. Qualcuno in coda con lei confidava, ne era quasi certo, nella riuscita della missione. Sembrava che si stesse mettendo male, perché in bagno non c’era ancora andata, quando all’improvviso la provvidenza ha fatto il suo. Sì c’erano ancora posti liberi: Obama non sarebbe venuto.
Che non ci fosse Mr President non significa che non ci fossero VIP.
Ora, io non sono mai stata a una prima, né all’uscita dell’Iphone 6, né a un concerto degli One Direction. L’affollamento davanti al cinema già mi ha inquietata ed emozionata allo stesso tempo. Avrei voluto parlare con tutti per capire i motivi di tanto fanatismo, fare foto migliori di quelle che ho fatto, farmi un selfie con gli attori e ottenere autografi sulla maglietta. Ma mi hanno detto di entrare “che c’è già abbastanza casino” e sono entrata.
Nella mezz’ora di ritardo con cui hanno fatto iniziare il film, osservare la fauna sugli spalti e fare foto allo schermo per vedere quello che avremmo visto se fossimo rimaste fuori come il resto del mondo sono stati i nostri passatempi. Le ultra-cinquantenni la facevano da padrone tra la folla, punteggiata da rare ventenni in lacrime di giubilo. Quello che ci ha stupito più di tutto, e che forse avrebbe dovuto stupirci di meno, era l’abbigliamento dei presenti. La loro eleganza era direttamente proporzionale alla loro affezione ai personaggi della storia, credo. Per esempio si sono visti uno con piume di pavone sulla spalla e una tizia vestita sobriamente di pezzi del firmamento. Non è che non sappia come ci si veste a una prima mondiale (per ribadire, no?), ma l’eleganza a Berlino è un vezzo per pazzi.
Infatti i veri berlinesi si riconoscevano per il loro degrado e il loro tasso alcolico, come quello dell’uomo seduto di fronte a noi. Quest’uomo, di cui purtroppo non ci è stato comunicato il nome, si reggeva a fatica ma sapeva far conversazione. Sfoderando un italiano insensato, ci ha raccontato di come a Venezia se ne sarebbe andato in giro interpretando Papa-Grappa (personaggio di sua invenzione) e facendo scompisciare, a detta sua, dalle risate l’intera città. Sebbene non fosse Carnevale. Comunque poi abbiamo dedotto che fosse un progressista, o un femminista, o un bigotto, o uno che non ha letto il libro e voleva un porno, perché durante il film si è alzato e se n’è andato mollandoci lì così.
Potrei parlarvi della coppia serissima seduta accanto a me, ma non c’è nulla da dire. A parte il fatto che questo film o lo prendi sul ridere o ti pagano per andarlo a vedere o sei un fan. E quindi non ho capito cosa volessero dimostrare con le loro facce. Notevoli sono stati altri compagni di avventura: come la donna matura e sola che, venuta apposta da Strasburgo, ha abbracciato la mia amica come se fosse un dio quando le ha fatto ottenere l’ultimo biglietto tenendole il posto. Oppure il cinese vicino a noi che, inspiegabilmente, si è addormentato fra una botta e l’altra. Succede anche ai migliori.
Ma soprattutto, c’era il cantante dei Rem: Michael Stipe, con la sua sciarpetta. La qual cosa non ha mancato di generare un certo sgomento, ma esclusivamente nella mia coinquilina. “Anche se si sono sciolti, questo non autorizza a non riconoscerlo”. Oggi mi ha mandato una foto fatta meglio della mia: era lui.
Emi Barbiroglio
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