Riceviamo e pubblichiamo l’articolo dell’amico e collaboratore Simone Pagliaro
La Sacra Famiglia che si concede un po’ di sosta, stanca per il viaggio che deve portarla in Egitto, lontano da Erode e dalle sue terribili intenzioni, è uno dei temi sacri più cari alla pittura rinascimentale e non solo. Fonte canonica è senz’altro il Vangelo di Matteo (2, 13-15), ma saranno soprattutto i Vangeli apocrifi a costellare di eventi gioiosi e prodigiosi il viaggio della famiglia profuga: si tratta di un repertorio notevolmente immaginifico, che ben si adatta alla resa pittorica del racconto.
Prenderemo in esame – ben consapevoli del carattere intuitivo e personale dei commenti, che non hanno, naturalmente, alcuna pretesa d’esaustività – due celebri realizzazioni pittoriche del Riposo durante la fuga in Egitto, entrambe compiute negli ultimi anni del Cinquecento, quella di Federico Barocci e quella di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Si tratta di due artisti grosso modo coevi, eppure molto distanti: mentre il Barocci persegue, nella pittura di historia, un ideale di decoro del soggetto idealizzato, Caravaggio – lo ha recentemente dimostrato, tra gli altri, Vittorio Sgarbi – sceglie di rappresentare una realtà senza finzioni. Questa sostanziale differenza, che farà precipitare il grande Caravaggio nell’oblio sostanzialmente fino agli inizi del Novecento (il Bellori lo accusa, infatti, di dipingere soggetti presi dalla strada, dalle osterie, dalle bettole che egli stesso frequenta, dissoluto com’è), emerge chiaramente dal confronto tra i due dipinti.
Il Riposo del Barocci, che oggi si trova nella Pinacoteca Vaticana, fu commissionato al pittore da Simonetto Anastagi per la chiesa del Gesù di Perugia e fu realizzato tra il 1570 e il 1573. Una pittura evanescente, che ‘evapora’ i contorni delle cose, pone al centro Maria, lei che, con lo sguardo basso, custodisce, meditandolo in cuor suo, tutto ciò che aveva visto e udito nei giorni del parto (cfr. Lc 2, 19). Bella e aggraziata, coi capelli composti, la Madonna è colta nell’atto di riempire una piccola coppa con l’acqua del ruscello, preludio di un gesto che ripeterà il Battista, quando, raccolta l’acqua del Giordano, la riverserà sul capo di Cristo. Alle sue spalle, il vecchio Giuseppe stacca dall’albero un ramo di ciliegie scarlatte, simbolo del sangue che Gesù verserà per riscattare l’uomo dalla morte e dal peccato. Il suo manto aranciato, sollevato dal girarsi improvviso, sembra voler partecipare alla sua premura di padre legale, mentre il piccolo Gesù (in effetti, un bimbo già cresciuto), corrisponde al suo gesto con un tenero sorriso. È – forse – proprio nella tenerezza di questo sguardo che si colloca la cifra espressiva di questo dipinto, romanticamente conosciuto come La Madonna delle ciliegie. Un quarto attore, discosto rispetto alla Sacra Famiglia, è l’umile asinello che contempla la scena: sembra quasi pronto a portare in groppa il Cristo per il suo ingresso trionfale a Gerusalemme. È una scena idealizzata, ricca di simboli: la Bibbia rappresenta ancora il grande lessico iconografico sfogliato dagli artisti.
Caravaggio dipinge il Riposo durante la fuga in Egitto (ora conservato a Roma, nella Galleria Doria Pamphilj) nei suoi primi anni romani, tra il 1595 e il 1596. Siamo nell’autunno incipiente, sul far della sera, nei pressi di una radura, sulla riva di un fiume. Il paesaggio rievoca i quadri di Giorgione, ma anche le atmosfere nebbiose dell’ambiente lombardo. La Madonna (probabilmente la stessa modella del quadro della Maddalena convertita) s’è addormentata. Il suo sonno esprime la serenità d’una donna che tiene tra le braccia suo figlio, nonché la fatica del viaggio. Abbigliata di un magnifico manto rosso fuoco, abbraccia teneramente il bambino (questa volta un neonato) e appoggia il proprio viso al suo. È una donna vera, reale, una di quelle che si incontrano per strada, e stringe al suo seno un bimbo altrettanto reale; è colta nel momento in cui il sonno la pervade e la mano si lascia cadere inerte. Giuseppe, pur affaticato, rimane a vegliare sui due. È seduto sul sacco delle masserizie, con accanto il fiasco del vino. Miracolosamente appare il vero protagonista della scena, un angelo che suona il violino. Giuseppe diviene, così, un ‘leggio umano’: non contempla misticamente la figura divina, ma regge uno spartito speciale (sulla partitura è segnato, infatti, come ha dimostrato la Trinchieri Camiz, l’incipit di un mottetto di Noel Baldewijn, tratto dal Cantico dei Cantici). Certo, il padre adottivo è colpito da quell’angelo così sensuale, che, se non avesse le ali pennute, sarebbe un altro ragazzo di strada, uno dei tanti che popolano i dipinti giovanili di Caravaggio. L’osservatore può ammirarlo di schiena, con la svolazzante tunica immacolata madida di luce. Da dietro la pianta, l’asino vigila con occhio attento, quasi umanizzato. È una scena armoniosa, carica di poesia e, nel contempo, di verità.
Nella figura del padre legale di Cristo, che in entrambi i dipinti compie un gesto ‘centrale’, è ben visibile la ‘distanza’ di Caravaggio dalla pittura del suo tempo. Da un Giuseppe tenero e sorridente, vecchio, ma ancora vigoroso ed elegante, che porge al figlio un ramo di ciliegie, si passa ad un Giuseppe che si fa leggio, dai tratti più grossolani e scavati, solcato da rughe profonde, dall’evidente stempiatura. Forse tale ‘distanza’ si legge, in particolare, in quell’umano e involontario gesto dei piedi che, callosi e reali, si sfiorano l’un l’altro per scaldarsi, quasi mossi da un brivido.
Bibliografia
- Pierluigi De Vecchi – Elda Cerchiari, I tempi dell’Arte. Dal Gotico Internazionale al Rococò, Milano, Bompiani, 2000.
- Vittorio Sgarbi, Caravaggio, Milano, Skira, 2005.
- Vittorio Sgarbi, Il punto di vista del cavallo. Caravaggio, Milano, Bompiani, 2014.
- Gianfranco Ravasi, Le meraviglie dei Musei Vaticani, Milano, Mondadori, 2014.
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