Il 25 marzo dell’Anno Domini 421, sull’isolotto lagunare di Rivo Alto, il carpentier Candioto (o Eutinoto) posava la prima pietra di una chiesa consacrata a San Giacometo. Candioto non sapeva, nel suo voler ringraziare il santo per essersi salvato da un incendio, di dare inizio in quel modo alla gloriosa e più che millenaria storia della città di Venezia.
Dubbi, a dire il vero, non si celano solamente dietro il nome dell’artigiano fondatore della chiesa, bensì dietro l’intera vicenda. La chiesa è sì la più antica della città, ma fu fondata parecchi secoli dopo, secondo le fonti più attendibili intorno al 1100. Già all’epoca descritta dalla leggenda la laguna (detta Venezia marittima) era popolata da genti fuggite dalla terraferma per scampare alle invasioni e ai saccheggi dei barbari, ma per trovare menzione ufficiale della città bisogna attendere l’821, quando Rialto stessa assunse il nome dell’intera regione lagunare. La versione storiografica leggendaria venne riportata in fonti scritte semplicemente in quanto la più gettonata in epoca medievale, complice anche la concomitanza con eventi beneauguranti quali la data di inizio della primavera e l’annunciazione alla Madonna nella tradizione cristiana.
La data dell’evento, considerato oggi la “fondazione mitica di Venezia” per conservare il fascino della leggenda, è stata scelta nel 2007 dal Parlamento regionale per indire la “Festa del popolo veneto”. I fini della ricorrenza, che vuole essere una sorta di festa nazionale del Veneto, sono chiariti dalla legge stessa, ovvero «favorire la conoscenza della storia del Veneto, valorizzarne l’originale patrimonio linguistico, illustrarne i valori di cultura, di costume, di civismo, nel loro radicamento e nella loro prospettiva, nonché far conoscere adeguatamente lo Statuto e i simboli della Regione».
Il popolo veneto, riconosciuto dallo Stato italiano già dal 1971 (insieme, unico altro caso, al popolo sardo), conta oggi sulla limitata autonomia riconosciuta dalla Costituzione alle regioni ordinarie, su una propria lingua – il veneto – che ancora deve trovare una codificazione scritta unitaria e che, sempre più influenzata all’italiano, non trova spazio sui mezzi di comunicazione di massa quali giornali e televisione, su una propria bandiera, il gonfalone di San Marco.
Se per quanto riguarda l’autonomia e la valorizzazione del patrimonio linguistico la situazione è ancora deficitaria, così non è invece per i simboli della regione: attingendo al passato della Serenissima possiamo raccontare la storia di ciò che, ancor oggi, rappresenta il Veneto in tutto il mondo. La bandiera attuale della Regione Veneto, definita dalla Legge regionale del 1975, riprende quella che è stata la bandiera storica della Repubblica di Venezia fino alla sua annessione all’Austria nel 1797 a seguito del trattato di Campoformio. Essa è costituita da un riquadro di color rosso pompeiano, che al suo interno contiene la rappresentazione del territorio regionale con il mare, la pianura e i monti. In primo piano è raffigurato il leone marciano, che ancor oggi domina piazze e palazzi non solo in Veneto, ma anche nelle antiche terre veneziane, da Bergamo al Montenegro a Cipro. La zampa destra del leone alato regge in piedi un libro aperto (per il suo contenuto spesso erroneamente identificato con il vangelo) che reca l’iscrizione «Pax tibi, Marce, evangelista meus». Sul lato destro del riquadro la bandiera termina in sette fiamme, ognuna delle quali reca nella parte mediana lo stemma dei sette capoluoghi di provincia veneti (in ordine alfabetico Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona, Vicenza).
Perché il leone alato e perché San Marco simboli della Serenissima? Perché il libro aperto e perché l’iscrizione? Perché 6 code svolazzanti? Per far chiarezza è necessario andare molto indietro nel tempo, quando intorno all’anno 828 due commercianti veneziani, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, trafugarono i resti del santo dalla città di Alessandria (di cui peraltro San Marco era allora patrono): essi convinsero i due custodi della necessità di salvare la reliquia dalla minaccia turca e scortarono il santo fino a Venezia, nascondendolo sotto un carico di carne di maiale. Ben presto San Marco sostituì San Tòdaro come patrono della città: la sua immagine prima e il leone alato poi iniziarono ad essere utilizzati come simboli della Serenissima. Il leone fu inizialmente coniato sulle monete e poi rappresentato anche sulle bolle ufficiali, sugli scudi militari e nei palazzi dell’aristocrazia. La particolarità del leone era quella di avere tratti antropomorfi, come personificazione del santo stesso a protezione della Repubblica. La maestosità del leone non sta solo nella simbologia dell’araldica classica, ma anche in quella legata al cristianesimo, che a quel tempo Venezia potè finalmente far sua: il leone rappresentava la forza della parola dell’evangelista, mentre le ali erano simbolo di elevazione spirituale, con l’aureola a dare il tocco di santità. Alla battaglia di Lepanto nel 1571, scontro cardine tra mondo cristiano e mondo ottomano, il leone alato si era già definitivamente affermato sulle bandiere navali veneziane, come riportano varie fonti e reperti dell’epoca.
La frase nel libro aperto, simbolo di sapienza e pace, risale ad un altro avvenimento mitico, il naufragio di san Marco nella laguna veneta e l’apparizione di un angelo con sembianze di leone che, anticipando il futuro, annunciava che un giorno proprio in quelle terre i resti dell’evangelista avrebbero trovato riposo. Manca nell’iscrizione la seconda parte della frase, che rende tutto più chiaro: «Hic requiescet corpus tuum».
Le 6 code, o fiamme, rappresentano i 6 sestrieri di Venezia e vennero concepite per preservare l’integrità della bandiera stessa: mosse sulle piazze o sui pennoni delle navi mercantili, dissipavano la forza del vento e preservavano l’integrità della parte centrale del vessillo, dove era ricamato il leone dorato. In caso di rottura, le code potevano essere semplicemente ricucite alla bandiera.
Le rappresentazioni del leone nel corso dei secoli sono molteplici. Quella classica utilizzata per statue, bandiere e gonfaloni è il leone andante, con il corpo rappresentato nella sua interezza. Si distinguono principalmente due versioni, una con il leone che sostiene il libro con l’iscrizione, un’altra dove invece il libro è chiuso e il leone stringe una spada, simbolo di forza e giustizia. E’ opinione comune che quest’ultima fosse la bandiera della Serenissima in periodo di guerra, tesi affascinante che però non trova alcun riscontro storico. Più probabile che si trattasse della bandiera utilizzata nelle zone di confine che sottostavano a un particolare regime di esenzione fiscale e dove il controllo di Venezia non era ancora saldo. Altra rappresentazione, a quanto pare la più antica, è quella del leone in mołéca, ossia racchiuso in un tondo, rappresentato frontalmente e accovacciato, con le ali aperte a mo’ di coda di pavone. Questa versione era coniata sulle monete per ragioni di spazio e prende il suo nome dai granchi della laguna, cui la prospettiva delle ali riconduceva. Infine il leone rampante, rappresentato di profilo, ritto sulle zampe posteriori. Durante i secoli, di pari passo all’aumento del prestigio della Serenissima nell’Italia settentrionale, venne modificata la raffigurazione del leone andante: non più volto verso l’Adriatico, lo “Stato da Mar”, bensì con le zampe anteriori saldamente fissate sulla terraferma, per sottolineare il dominio sullo “Stato da Tera”. In alcuni casi sui gonfaloni vennero aggiunti anche torri e mura delle città dominate.
I domini veneziani per mare sono oggigiorno solamente un ricordo: il leone non bagna più le zampe posteriori nell’acqua del mare, ma poggia saldo sulla terraferma nella Pianura veneta. La storia, anche e soprattutto attraverso una bandiera, resta una testimonianza importante per capire cos’è il popolo veneto e cosa si può fare al giorno d’oggi per valorizzarne al meglio il patrimonio culturale. Da parte mia, auguri a tutti i veneti!
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