Uscito appena dall’adolescenza
per metà della vita fui gettato
nelle stalle d’Augìa.
Non vi trovai duemila bovi, né
mai vi scorsi animali;
pure nei corridoi, sempre più folti
di letame, si camminava male
e il respiro mancava; ma vi crescevano
di giorno in giorno i muggiti umani.
(Satura, Eugenio Montale)
AAA cercasi regista folleggiante per realizzare un dramma fecale brechtiano-aristofanesco in occasione dell’Expo Milano 2015, secondo il seguente canovaccio. Il drammaturgo rinuncia a tutti i ricavi e a tutti i diritti.
L’azione si svolge in mezzo al mare, sul ponte di un vascello, senza interruzioni di tempo.
La nave dell’avventuriero Istrione trasporta verso una “magna polís” una gran varietà di passeggeri e mercanzie, in occasione della fiera universale che vi si terrà a breve. Al centro della scena campeggia il bene più prezioso che Istrione deve portare a destinazione: un culo di proporzioni gargantuesche, che via via cacherà sulla scena i vari personaggi. Essi provengono dalle interiora feconde del culo e ne sono come partoriti. Altri fuoriescono dalla stiva della nave, collegata al ponte da un passaggio che si trova proprio al di sotto dello spacco formato dalle due natiche. Ogni volta che compaiono sono accompagnati da un gran peto.
Il culo è il prodotto organico di uno studioso indiano genialoide, che dopo decenni di sperimentazioni ha creato questo monstrum, capace con un solo pugno di legumi, lasciati a fermentare nelle sue budella, di produrre tanta crema da sfamare un continente. La grande fiera infatti è dedicata al tema dell’alimentazione, a come saziare le masse di nullatenenti che affollano un pianeta ormai prossimo ad esaurire le sue risorse. E il culo altro non è che il dono prodigioso lasciato all’umanità da questo scienziato vecchissimo, poco prima della sua morte.
Il culo è azionato da tre manovali: un energumeno che fa girare una manovella (suscitando un roboante suono di scorregge), un ingegnere informatico (che presenzia sulla scena, dietro una piccola scrivania) e un cantore greco-calabrese, il dotto Teofilo. Opportunamente solleticato da Teofilo, che gli sussurra parole dolci in una lingua melodiosa ed antichissima e gli pizzica all’ “orecchio” le corde di una chitarra-mandolino, il culo è in grado di produrre ben altro oltre alla sua deliziosa e nutriente burrata: una fantasmagoria caleidoscopica di figure e di miraggi sbucano dal suo roseo sfintere e prendono vita sulla scena, per poi dissolversi magicamente. Il culo rappresenta la potenza illusionistica del tecno-capitalismo e la sua pretesa capacità di creare infinita ricchezza. Può rappresentare anche Dio, l’universo o, a piacere, i frutti e le capacità rigenerative della terra.
Istrione, pigramente adagiato su una stuoia, fumando il narghilè, invita Teofilo a sfruttare le doti profetiche del gran culo, perchè gli dia un saggio delle meravigliose sorti e progressive che scaturiranno dalla fiera universale. Il carnoso marchingegno è tosto messo in moto dai tre addetti ed evoca con uno sbuffo una serie di spettri e di visioni.
Dapprima si fa avanti arrancando una schiera di donne seminude. Tirando dei cordini, trainano un carretto su cui si erge l’idolo di un nume armato di scudo e lancia, dall’enorme cazzo sbucciato. Sono dattilografe, puttane, casalinghe, figlie, mogli e madri stritolate dalla macina del sessismo fallocentrico. Insieme a loro intervengono anche un frocio e un travestito. La tirata femminista è stemperata dal lirismo della testimonianza di ciascuna, alla Edgar Lee Masters. All’apice della rabbia e della sconcezza, irrompono sul palco sulle note della Danza delle sciabole di Aram Khachaturiam (il jingle dello sgrassatore Chante Clair) quattro sacerdoti cattolici, che piroettano leggiadri sorreggendo l’orlo della tunica con la punta delle dita. Una a una le coreute sono imbavagliate dai preti, che con solerzia le scortano all’uscita. Invano i compagni di Istrione tentano di dissuaderli, intonando forte un <<Laudate Anulum>> e additando la sorgente semi-divina della donnesca processione.
Il secondo coro è composto dagli animali da fattoria: cala una penombra innaturale e in un’atmosfera onirica attori e attrici vestono costumi da mucche, tacchini, maiali e quant’altr*. Narrano in tono elegiaco le violenze e le privazioni che hanno sofferto, senza nessun’altra colpa se non quella di non essere umani. La loro apparizione è interrotta da una barca fenicia che accosta quella di Istrione. Un coro di migranti cenciosi fa il suo ingresso sulla scena e prende timidamente la parola. Hanno nomi arabi. Anche loro sono diretti alla “magna polís” dove abiteranno le baracche della periferia e lavoreranno, invisibili, come schiavi.
A questo punto Istrione riceve una delegazione dai capi della fiera: sono i perfidi capitalisti, due uomini e due donne finemente vestiti. Venuto a conoscenza dei loro piani di spartizione delle ricchezze che usciranno dal gran culo, Istrione si ribella, rifiuta di consegnar loro l’animale e li fa gettare in mare dal suo equipaggio. Nella scaramuccia Teofilo (che era un dissidente politico e portava una palla d’acciaio ai piedi) rimane ferito al mignolo e, sconsolato, chiede di essere spinto per i piedi da Istrione e i suoi fin dentro allo sfintere del gran culo: spera di trovare dall’altra parte un mondo migliore di quello in cui ha vissuto fino allora. I marinai esaudiscono festosi il suo desiderio.
Ora Istrione sogna di costeggiare tutte le terre e di distribuire gratuitamente a tutte le genti le derrate alimentari che il culo produrrà generosamente. Nomina un elenco di località fantastiche dai nomi immaginifici, che si propone di attraversare. Presto però l’imbarcazione è attaccata dalle torpediniere delle nazioni. Il buffonesco capitano rintuzza la furia armata dei suoi inseguitori scagliando focacce di merda (dolcissime, appena sfornate). Dopo una fuga rocambolesca, la nave è ridotta a un relitto, ma il culo è in salvo e Istrione cerca di titillarlo perché emetta ancora la sua crema squisita, dandogli prova delle sue potenzialità. Forse per l’assenza di Teofilo, forse perché è rimasto danneggiato durante i cannoneggiamenti o per qualche altro motivo ignoto, dal culo non esce che una ventata di scorregge. Istrione è disperato. In ginocchio davanti allo sfintere innalza un’invocazione lamentosa e incalza l’ano con una scarica di domande sul significato della vita e della storia (<<Deh, culo, perchè non mi rispondi?>>). In preda all’ira e ad un profondo turbamento, col volto rigato dalle lacrime, è un po’ Achab che provoca all’azione la balena, un po’ Cristoforo Colombo (quello delle Operette Morali di Leopardi) con Pietro Gutierrez. Infuria flatulenta la bufera. Il nero pertugio sembra quasi spalancarsi per rilasciare un profluvio di melassa zuccherina, quando, al culmine delle preghiere, il protagonista infervorato è investito da un getto di sterco, che pone fine miseramente al suo monologo. Quindi il prolasso: l’ano è irreparabilmente fuori uso.
Cala il sipario.
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