Delle vegane e dei vegani è invalsa ormai un’idea caricaturale, grossolanamente stereotipata. Come hanno già scritto altri, questo loro appiattimento da parte della società ad un livello macchiettistico è funzionale a disinnescare il potenziale sovversivo dell’ideologia secondo cui agiscono. Per cercare di sottrarli (e sottrarci) a questo inconveniente, dedichiamo una breve serie di interviste ad alcune attiviste e attivisti antispecist* (e quindi anche vegan*), per mettere in risalto la ricchezza delle loro visioni e valorizzare le specificità di ciascun*. Oggi tocca a Francesco, milanese, che incontriamo al Birrificio Lambrate di fronte ad una schiumante caraffa di bionda luppolata.
Francesco, raccontaci come ti sei avvicinato al mondo dell’animalismo (e successivamente a quello dell’antispecismo politico).
Ho smesso di mangiare carne nell’estate dell’82. Prima consideravo i vegetariani degli originali o dei mistici. Sono arrivato a questa soluzione mentre stavo dando una mano a mio suocero, che è titolare di un allevamento di bovini, nel mantovano. Lo sguardo dei vitelli e il fatto che si comportassero esattamente come gli animali domestici a cui siamo affezionati mi hanno spinto prima verso la zoofilia (ho fatto per due anni il volontario all’Enpa soccorrendo animali in difficoltà), poi a collaborare con gruppi antispecisti come Oltre la Specie e con realtà come Vita da Cani e Nemesi Animale.
Quel che rende particolarmente interessante il tuo profilo di attivista, è il connubio che sei riuscito ad instaurare tra l’antispecismo e i centri sociali (o altre realtà affini).
Certamente. Da ragazzo sono stato paracadutista e frequentavo ambienti destroidi, da cui negli anni ho preso le distanze. Ora spesso e volentieri cucino ad eventi e iniziative della sinistra anarchica. Penso per esempio alle serate del Boccaccio (il centro sociale di Monza), al Climate Camp che abbiamo fatto contro la Teem, alle ricorrenze del Poq (Partigiani in ogni quartiere) o alle manifestazioni in memoria di Dax. Ormai in questi contesti la cucina è parzialmente se non del tutto vegana. Penso che proporre un menu senza ingredienti originati dallo sfruttamento animale sia un modo per affermare la libertà contro la prigionia, il rispetto contro la prevaricazione: molte volte mi accorgo di avere di più in comune con questi gruppi antifascisti e anticapitalisti che con gli “animalari” apolitici e gli zoofili puri.
Da questo punto di vista, ti sentiresti di muovere delle critiche anche al movimento antispecista vero e proprio, quello che assume di buon grado una configurazione politica e prende posizione anche in materia di rapporti infra-umani?
Secondo me c’è troppo isolazionismo. Si parla tanto di politica ma poi quando si tratta di scendere in strada, tra le persone, ad unire la causa antispecista a quella di chi lotta per il diritto alla casa o per la difesa del territorio dagli ecomostri, contro il precariato o per una scuola migliore, nessuno (o quasi) si fa vedere. In questo modo non ci guadagneremo mai la fiducia della gente, non otterremo mai la loro attenzione. Abbiamo bisogno di raggiungere un’intesa con le altre lotte per riuscire a creare un movimento non antropocentrico.
E’ possibile declinare in mille modi la dieta vegana. Per disgrazia, anche a causa dell’influsso nefasto della macrobiotica e dei maniaci dei manicaretti, oggi giorno molti identificano il veganismo con un certo tipo di ricette sofisticate, prive di colore e gustosità. Ormai il cibo vegano è percepito come una prerogativa degli yuppie e dei privilegiati. A maggior ragione, penso sia molto significativo il progetto che hai portato avanti nella direzione contraria con gli Chefs Vegabbondi. Di che si trattava esattamente?
Io e alcuni amici ci eravamo ispirati al gruppo internazionale dei “Food not bombs”. Come loro portavamo nelle manifestazioni e ai presidi, anche durante le occupazioni, i nostri panini e i nostri piatti ispirati alla cucina popolare. Tutto vegano, semplice, economico, saporito e molto abbondante. Facevamo per esempio pasta e fagioli oppure la polenta al sugo di legumi, con pomodoro e spezie. Alcune volte compravamo gli ingredienti, altre volte ce li procuravamo tramite lo skipping, ovvero il recupero di importanti quantità di cibo perfettamente commestibile che per ragioni di mercato (consumistiche) i supermercati e i grandi distributori sono costretti a buttare (bottiglie di olio in scadenza, latte di pomodoro ammaccate, ancora chiuse, eccetera). Una volta alla settimana preparavamo riso con verdure o pasta con legumi per 25-30 persone (spendendo in tutto 10 euro) e li portavamo con del tè caldo ai senzatetto che dormivano per la strada o alle prostitute. Tutto ciò non per spirito cristiano o per pietismo, ma perché il cibo è un diritto inalienabile di ogni essere vivente, qualunque cosa faccia.
Attualmente sei molto impegnato con la rete No Expo. Possiamo dire che sei uno degli elementi più rappresentativi dello spezzone antispecista (ecologista e per la libertà di genere) che il primo maggio sfilerà a Milano con il resto del corteo, come già è stato fatto l’11 ottobre scorso. Perché dire no ad Expo e perché in particolare opporcisi da antispecisti?
Trovate tutto scritto sul dossier di Farro&Fuoco: sfruttamento dei lavoratori, devastazione ambientale, liberismo selvaggio. Si tratta di multinazionali che cercano di ripulire la propria immagine con una tipica operazione di green washing. In particolare, riguardo ai non umani, Expo sostiene delle idee tipicamente welfariste alla “Slow Food”: migliorare le condizioni degli allevamenti senza mettere radicalmente in discussione il consumo di carne e di prodotti animali. Expo rappresenta un ben preciso sistema economico, se non riusciremo a cambiare quello non potremo mai aspirare alla liberazione animale. Lo sapevate che al suo interno ospiterà una fiera gigantesca dedicata agli strumenti da macelleria, il Meat-Tech? Invito tutti a partecipare alla manifestazione studentesca del 30 aprile e soprattutto al grande corteo del MayDay!
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