Chiamatela pure sindrome della botte piena e della moglie ubriaca. In termini tecnici si chiama NIMBY (Not In My Back Yard, cioè non nel mio cortile): l’insieme – spesso numeroso – di persone che protestano contro centrali elettriche, piattaforme petrolifere e ogni sorta di infrastruttura di interesse pubblico che debba attraversare la propria città o regione. Se c’è il minimo rischio possa inquinare, fatela da un’altra parte.
Questa malattia ha investito in maniera preponderante i movimenti ambientalisti. In particolar modo su un tema cardine della vita economica della società europea, cioè l’Energia. Senza elettricità non andremmo molto lontano. Chi sta leggendo queste righe non potrebbe farlo, se non avesse di che alimentare il suo computer o lo smartphone. Senza elettricità dovremmo tornare a conservare il cibo nelle cantine a suon di sale, pepe e metodi per affumicare la carne. Di energia viviamo: il problema risiede nel come generare la corrente di cui abbiamo bisogno. Perché produrne è inquinante. Molto. E qui casca l’asino.
In un recente libro intitolato “Nuove Energie”, Giuseppe Recchi, presidente dell’Eni, si scaglia contro Europa ed ambientalisti, rei di aver ideologicamente sbarrato la strada a tutti gli idrocarburi in nome della riduzione delle emissioni e dell’inutile rincorsa alle fonti rinnovabili. Il terrorismo mediatico e l’incapacità politica dei molti governanti europei ha reso l’Europa fanalino di coda del mondo industrializzato, per il semplice fatto di essersi castrata volontariamente nel punto più dolente dei processi di crescita economica: la disponibilità di risorse energetiche a basso costo per le imprese e per le famiglie, costrette le une a non poter competere con le altre aziende straniere e le altre a pagare una sovrattassa energetica che riduce i consumi.
In Europa paghiamo l’energia più cara del mondo. Più degli USA e in misura molto maggiore di quanto non possa fare un imprenditore in Cina e in Brasile. I motivi sono semplici: corsa sfrenata alle rinnovabili, recessione economica e ricorso crescente al carbone (più inquinante, ma enormemente più vantaggioso).
Tutto nasce dalla decisone assunta dalla Commissione europea di porsi come obiettivo il raggiungimento di una cometa, sperando di poterci arrivare con un aquilone. Nel 2009 è stato stabilito l’obiettivo 20/20/20: ridurre del 20% le emissioni di gas serra, aumentare fino al 20% la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili e aumentare del 20% l’efficienza energetica. Tutto bello, ma utopico e dannoso. Soprattutto per via delle medicine che sono state sottoposte ad un paziente impreparato a riceverle: enormi incentivi economici alle rinnovabili (10 miliardi complessivi in Italia che pesano sulla bolletta di tutti i cittadini per un 18%) e la creazione nel 2005 dell’Emission Trading System. Un “mercato dell’inquinamento”: se vuoi inquinare devi pagare, acquistando quote di emissioni di gas serra.
I risultati, come detto, non sono stati quelli sperati. Con la crisi economica la quantità di energia richiesta dalle imprese in deficit di produzione si è ridotta e quindi l’offerta quote presenti nel mercato ha superato la richiesta. Inquinare costava sempre meno ed investire sul carbone diventava relativamente più vantaggioso. È così che la generazione elettrica a carbone è aumentata dal 37% nel 1990 al 41% nel 2011. Nonostante, anzi, grazie alle politiche ambientaliste.
Chiariamo. L’attenzione verso la sostenibilità ambientale dell’attività economica è indubbiamente positiva. Ma occorre affrontare la questione con spirito razionale, non ideologico. Quell’ideologia che ha pervaso è tuttora alimenta le lotte ambientaliste e localiste in tutta Europa. L’ideologia, appunto, della moglie ubriaca e della botte ancora piena. Perché chi protesta contro petroliere, centrali a carbone, centrali a gas e chi più ne ha più ne metta (ma ho assistito anche a manifestazioni contro l’eolico), spesso si scorda di vivere in una società immersa nel petrolio. Tutto quello che ci circonda è direttamente prodotto con un derivato dell’oro nero o è creato grazie all’utilizzo di energia prodotta con idrocarburi. Farne a meno è praticamente impossibile. Si pensi alla plastica, alle auto, ai computer, alle componenti per le cellule fotovoltaiche e finanche alle medicine: aspirine, antibiotici e supposte.
E proprio alle supposte viene da pensare quando si guarda alle scelte energetiche dell’Europa, unita solo a parole. Molti paesi europei hanno detto un secco “no” al nucleare, e nessuno sforzo viene ancora fatto per sfruttare le risorse di shale gas presenti nel Vecchio Continente. Riserve non enormi, ammette anche Recchi, ma comunque indispensabili in un periodo di crisi economica dove risparmiare sull’energia potrebbe significare la sopravvivenza di una impresa produttiva. Provare per credere. Gli Stati Uniti in pochi anni, grazie al gas ottenuto dalla frantumazione delle rocce, sono diventati da importatori di energia a esportatori. La rivoluzione dello shale gas ha prodotto un rimescolamento geopolitico. I prezzi dell’Energia enormemente bassi hanno reso l’economia statunitense incredibilmente competitiva che, infatti, è uscita dalla recessione ben prima di noi. Gli europei sono ancora impantanati nei regolamenti comunitari e, impauriti dalle proteste ambientaliste, hanno frenato questa nuova tecnologia.
Difendere il pianeta è un diritto. Sacro ed anche positivo. Ma non si può fermare il mondo e puntare alla “decrescita felice” quando un intero continente comincia a riscoprire la povertà e l’immobilismo economico. Investire sulle tecnologie per ridurre l’inquinamento è doveroso. Ma non si può pensare di frenare la macchina economica fino a che un genio del politecnico avrà capito come trarre energia in grandi quantità da una fonte inesauribile e del tutto “green”. L’innovazione va avanti per piccoli passi, puntare sullo Shale Gas (e perché no, anche sul nucleare) e sulle tecnologie ad esso collegato è lungimirante, non criminale nei confronti dell’ambiente. Perché va ricordato: la scoperta del petrolio, riducendo il ricorso all’olio animale, “ha salvato più balene di Greenpeace”. E ci ha reso la grande economia che eravamo. Ora invece siamo al palo. Anche per colpa degli ambientalisti.
Non moriremo di ambientalismo, ma semmai di idiotismo (nel senso etimologico della parola, del privato cittadino che cura solo i fatti suoi): proprio questa visione nazionalista di competizione tra gli stati, che per rimanere al passo debbono sacrificare le misure contenitive sull’inquinamento, ci porterà allo sfacelo.