Sono tornato dal corteo di ieri pomeriggio con la testa macchiata di rosso, non certo per il sangue versato durante gli scontri con la polizia (che sono stati ben poca cosa nel complesso), ma per i brillantini colorati che mi ha versato addosso un’altra manifestante, come ricompensa cordiale per un volantino antispecista che le ho lasciato. Il corteo è stato immenso, gioioso, tumultuante. Un serpentone variopinto che ha attraversato il cuore di Milano da Piazza XXIV Maggio a Piazza Amendola, sotto gli occhi minacciosi degli elicotteri che lo sorvegliavano dall’alto, e dello smisurato schieramento di polizia che ad ogni svolta ne monitorava il percorso (con transenne metalliche e furgoncini blindati, agenti-soldato equipaggiati come centurioni romani).
Migliaia di attivisti e simpatizzanti hanno sfilato in nome delle cause più nobili, uniti sotto il vessillo di chi si oppone all’Esposizione Universale. Non soltanto a quello che Expo rappresenta per il territorio lombardo in termini di sfruttamento dei lavoratori, cementificazione, grandi industriali, mafiosi e corrotti arricchiti et cetera, ma anche al sistema economico-produttivo di cui Expo 2015 si pone come la massima esaltazione e glorificazione: un’assurda mascherata auto-assolutoria in cui i principali responsabili della devastazione ambientale, delle diseguaglianze sociali, della cultura consumistica della predazione e del dominio (a livello planetario) si ripropongono con un sorriso di trovare da sè la soluzione a questi problemi che, per essere risolti, dovrebbero passare inevitabilmente sui loro cadaveri. Il discorso di Bergoglio – sulle radici strutturali dell’iniquità, sulla condizione delle donne, sulla tutela del pianeta, sul binomio pane-lavoro e sulla necessità di subordinare i mercati agli interessi della comunità – sarebbe davvero notevole (tra tante ipocrisie e cerimonie) se a pronunciarlo non fosse proprio il rappresentante di una delle istituzioni culturalmente e materialmente più colluse con la realtà che egli denuncia.
Naturalmente la stampa è di parte e per coprire con una nube lacrimogena le ragioni di chi ieri è sces* in piazza si è concentrata esclusivamente sulla scaramuccia tra la polizia e i guerriglieri anarchici. Ebbene sì: nel tardo pomeriggio due macchine sono state incendiate, le vetrine di qualche banca infrante e già il giorno prima (al corteo degli studenti contro Expo) erano state lanciate palle di vernice contro i palazzi degli uffici di Expo. Ma è solo l’ignoranza delle motivazioni dei No Expo a suscitare l’indignazione della società perbenista. L’incapacità generale di distinguere un’azione di rivolta dal mero sfogo degli ultrà della domenica non sussisterebbe se vi fosse (oltre ad una maggiore cultura politica) una reale percezione della subdola gravità di quello che ci viene continuamente presentato come un grande evento benefico, patinato e luccicante.
La violenza contro beni o persone, in quanto atto liberante, non ha nulla di sbagliato di per sé: nessuno oggi si sognerebbe di criticare gesti di sabotaggio o vandalismo compiuti contro le sedi del regime fascista in Italia, durante il ventennio. Ugualmente, per salvare i prigionieri di un campo di concentramento (o di sterminio, come nel caso delle vacche e dei maiali che ogni giorno vengono trascinati al macello) dovremmo essere tutti d’accordo sull’opportunità di ricorrere alla violenza. Anche per rovesciare un sistema di rappresentanza politica marcio e inaffidabile, profondamente ingiusto, come è avvenuto a Parigi 226 anni fa con la rivoluzione francese, bisogna considerare la violenza uno strumento necessario e ben accetto.
Lo scontro con le forze dell’ordine (ma bisogna chiedersi: quale ordine?), preso atto dell’innocenza di gran parte degli agenti che per mestiere si trovano a contenere le pulsazioni di quella parte della società che non si è fatta assuefare alla retorica di Expo, non può essere letto a prescindere dalla consapevolezza del ruolo che la polizia ha sempre svolto nel mantenimento dello status quo e degli interessi dei più forti. Tanti italiani e italiane che si dicono feriti nel loro piccolo orgoglio patriottico dall’immagine che gli stessi giornalisti italiani (farabutti!) hanno voluto trasmettere della giornata di ieri, è dovuto solo all’incomprensione e all’indifferenza per la causa dei No Expo: sia di quelli che hanno scelto di manifestare pacificamente, sia di quelli che hanno aggredito fisicamente i luoghi simbolici del potere asfissiante a cui si ribellano. E’ su questa incomprensione e questa indifferenza che occorre interrogarsi.
Probabilmente la massa degli astanti non prenderà parte fino a che non si scoprirà realmente lesa nei propri beni e nei propri interessi da Expo e dal suo corredo di multinazionali e potentati finanziari. Probabilmente non uscirà mai dall’ipnosi in cui attualmente si lascia cullare fino a che le condizioni economiche ed ecologiche non precipiteranno anche qui, nel vecchio continente. Probabilmente della violenza a fini politici andrebbe fatto un uso più accorto e mirato di quello dei cosiddetti balck bloc durante il corteo del primo maggio (pur così bello e festoso nell’insieme). L’unico dato a cui mi sento di non anteporre un “probabilmente” è la necessità di eludere la propaganda terroristica condotta in queste ore sui mezzi di comunicazione e di continuare ad operare per rimuovere quella pellicola di fumo e di caligine che ancora ottenebra lo sguardo di coloro non si sono resi conto della nocività del modello Expo e della violenza (quella sì intollerabile) delle sue implicazioni.
Per una critica di parte antispecista ad Expo 2015, rimando all’articolo di Marco Reggio pubblicato sul numero 20 della rivista Liberazioni. Segnalo inoltre questa sera al campeggio No Expo di Trenno la performance porno vegan “Vassoi Umani” a cura di Frangette Estreme – Liberati da Expo.
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