Condivido su questo blog una serie di due interventi dedicati a modi di dire specisti, preparati per la trasmissione radio Restiamo animali.
Figlio di un cane (o “fiol d’un can”, come suona nelle campagne polesane) è un’espressione che si usa per insultare un individuo di sesso maschile ferendolo nel proprio amore per il padre e al tempo stesso mettendo in discussione la legittimità della sua condizione sociale. In un mondo in cui la ricchezza e il posto che si occupa all’interno della comunità (a partire dal nome stesso che uno porta) si trasmettono per via patrilineare, asserire che qualcuno è figlio di un cane è certamente grave. Significa dargli del miserabile, ma in un universo di valori specista significa anche privarlo di quello che è considerato il grado minimo di ogni dignità: l’appartenenza al genere umano.
Il cane per di più gode di una pessima reputazione tra gli animali: nella storia della domesticazione è stato il primo, circa 10.000 anni fa, a cooperare e lasciarsi integrare in gruppi umani, subordinando i propri interessi ai loro. Nonostante tutte le sue virtù e la sua lealtà, il servilismo e la sottomissione gli sono costati un’aura di latente disprezzo, che permane tutt’ora. Il cane è quello che non ha nessun riserbo a uggiolare e umiliarsi per avere un pezzo di pane: nell’Iliade, quando Agamennone vuole oltraggiare Achille davanti a tutti gli Argivi, perchè ritiene che abbia osato chiedere troppo, tuona contro di lui le parole <<faccia di cane, cuore di cervo>>, per dirgli che era uno sfacciato e un vigliacco. E’ l’animale spudorato per eccellenza, che si accoppia sul ciglio della strada e che muore (come un cane appunto) sul ciglio della strada. E’ colui al quale sono estranei i fondamenti della vita civile (tra cui proprio le nozze e i funerali). E’ il bastardo per antonomasia, giacchè ogni genealogia è assurda (se si escludono i cani della nobiltà e i loro epigoni contemporanei) per chi si ama e si riproduce liberamente fuori misura e fuori controllo.
Nelle stanze degli aristocratici e negli appartamenti dei piccoli borghesi il cane è vezzegiato, è guardato con tenerezza, come un pet in cui vedere un riflesso di se stess. Tuttavia nella maggior parte dei casi il cane è l’indesiderato, il parassita che vive ai margini della società, che vaga per le campagne e infesta le periferie, affamato e rognoso.
Per comprendere appieno la gravità dell’offesa, quando si dà a qualcuno del figlio d’un cane, e per meglio comprendere la cultura che ci fa percepire come offensivo questo modo di dire, non dobbiamo considerare il cane adorato che viene accolto in seno alla famiglia, nè tanto meno quello accattone, coperto di pulci, senza padrone. Dobbiamo guardare invece all’oikos, alla villa, ai nuclei di produzione della ricchezza in cui si sono forgiati i valori fondanti della nostra civiltà. In questi luoghi, a seconda del ruolo ricoperto nel processo produttivo, a ciascuno veniva attribuita una diversa importanza. Al momento del pasto, come avveniva ancora pochi decenni fa nelle famiglie allargate, ci si raccoglieva sotto l’autorità del patriarca, il capo della famiglia o della comunità, e l’ordine sociale riceveva la sua consacrazione nell’atto stesso di consumare il frutto del lavoro collettivo. L’importanza di ciascuno allora si palesava nella disposizione dei commensali e il cane, che pur partecipava alla prosperità del gruppo con compiti di sorveglianza del patrimonio e del bestiame (gli altri animali addomesticati) e come valido aiutante nella caccia, il cane allora condivideva il posto della servitù e degli ospiti di infimo grado: riceveva per terra le briciole e gli avanzi del banchetto, che gli venivano gettati ai piedi del tavolo.
Che l’epiteto di cane abbia un significato particolarmente dispregiativo lo testimoniano già a sufficienza l’uso di cagna per dare ad una donna della svergognata e del nome di cane attribuito a Dio nella bestemmia. Tuttavia, nel mondo dei padri, dove il padre eterno, il sovrano (padre del suo popolo) e il pater familias si collocano in ordine concentrico nella scala delle massime autorità, asserire che qualcuno è figlio di un cane rappresenta un’illazione particolarmente pesante. Nella <<repubblica delle proprietà>> equivale a minare il posto che ciascuno di noi presume gli spetti nel mondo: perchè ai bastardi, è bene ricordarlo, non spetta alcuna eredità.
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