Le onde. Il mare. Il mar Mediterraneo. Da sempre luogo di viaggi storici: migrazioni, colonizzazioni, sanguinosi conflitti. Ma anche di viaggi letterari, dove il viaggio attraverso questo mare assumeva i connotati di una vera e propria metafora di vita: vita di Odisseo, di Teseo, di Enea e tanti altri eroi. Oggi invece la metafora di una vita in viaggio si trasforma nella triste realtà di dieci, cento, mille vite di profughi perdute per sempre nei profondi fondali del mar Bianco di Mezzo, al-Baḥr al-Abyaḍ al-Mutawassiṭ, secondo la definizione araba.
Sì perché vi sono oltre ad africani e asiatici, uomini dell’Africa sub-sahariana, anche numerosi siriani e mediorientali tra le vittime. Viaggiano su catapecchie naviganti che a malapena possono essere definite imbarcazioni su cui scafisti senza scrupolo li imbarcano sotto la minaccia anche di pistole. A loro l’esito della traversata interessa relativamente se comparato al denaro incassato in precedenza all’imbarco: le ultime stime parlano di un giro di affari compreso tra i 300 e i 600 milioni di euro. A rimpinguare le casse degli scafisti nell’ultimo periodo, la massiccia affluenza di profughi siriani: più danarosi dei loro compagni di sventura africani, sono decisi a sborsare somme decisamente più alte per la traversata e creano una concorrenza anche all’interno dei gruppi di profughi. L’aumento della disponibilità di liquidi e quindi di anche di navigli su cui imbarcare profughi in continua crescita e ad una preparazione scientifica dei gruppi di scafisti – conoscono le leggi europee e le regole di Frontex – ha portato il fenomeno a raggiungere picchi drammatici. Picchi che se dovessero perdurare nella loro intensità porterebbero, secondo le stime, porterebbero a 30.000 morti nel Mediterraneo quest’anno. E questo apre questioni che interessano tanto l’Europa al suo interno ma anche nei suoi rapporti con i paesi limitrofi.
In primo luogo manca da mesi a questa parte una chiara visione europea d’insieme. Il deficit di politica estera dell’Unione Europea è messo spietatamente a nudo da situazioni come questa, dove a singoli stati – leggi: Italia – è richiesto di gestire situazioni che richiedono una visione più d’insieme e a lungo termine e meno basata sull’efficienza individuale dello stato, mentalità dominante nei paesi nordici tra cui, non ultima, quella Germania che è ad ora punto centrale e fulcro della politica europea. Il deficit di lungimiranza politica vede come conseguenza immediata un affollamento sopra ogni norma di buon senso e igiene di centri accoglienza di un solo paese, quando da tempo – correva l’anno 2013 – paesi nordeuropei come la Svezia hanno annunciato la concessione di asilo indiscriminata per i profughi siriani. Ma la contraddizione in termini è che ben poco viene fatto per favorire la mobilità dei profughi nel territorio europeo, permettendo loro di trovare rifugio e sistemazione. E questo fomenta in paesi come l’Italia i populismi di chi è stufo di vedere il proprio paese essere l’unico ad assumersi l’onere dell’emergenza, tuonando ‘rispediamo indietro i barconi’. Tutto questo in barba alla norma internazionale del non-refoulement che impedisce di rispedire i migranti dai paesi in cui in pericolo non erano solo le loro sostanze ma anche la loro stessa vita.
La mancanza di una foreign policy europea, un comune indirizzo politico nelle relazioni internazionali condiziona pesantemente la risoluzione di crisi come quella che attualmente attanaglia il Mediterraneo. Una miopia così pesante rischia di impedire di vedere l’evidente connessione tra la mala gestione della crisi siriana con conseguente appoggio dei ‘ribelli moderati‘, avvento dello Stato Islamico, massacri a carattere etnico e religioso e crisi libica con l’eliminazione del colonnello Gheddafi. Perché l’Occidente in senso lato e l’UE nello specifico ha sempre fondato finora la propria politica mediterranea sull’appoggio di regimi più o meno autoritari – Ben Ali a Tunisi e Hosni Mubaraq al Cairo – in grado di garantire un minimo standard di sicurezza anche sulle transizione migratorie nel Mediterraneo. Tutto questo è venuto meno con l’avvento delle primavere arabe, che però non hanno portato agli sperati risultati di democratizzazione pura come ipotizzato in Occidente. Semplicemente la mancanza di uomini forti al potere ha frantumato l’unità politica – ora in Libia ci sono ben due governi- degli stati della sponda sud del Mediterraneo. Non si è capito come e dove queste transizioni potessero portare Egitto, Tunisia e Siria. Si è pensato che questi paesi potessero democratizzarsi da sé, né più né meno dei paesi occidentali. Non si è mai pensato che per via della cultura e della mentalità differente degli ambienti tunisino, egiziano e siriano le soluzioni democratiche potessero non contemplare le medesime categorie di pensiero europeo. Nessun appoggio a forme di governo diverse da quelle già in voga in Europa, insomma.
Questo vuoto decisionale nelle relazioni internazionali senza l’appoggio convinto a leader di paesi della primavera araba autonomi ha creato una pericolosa inversione di tendenza che, vuoi per ragioni di sicurezza dovuta all’eccessivo caos post-crollo di regimi e all’incapacità di governi – vedi Morsi in Egitto – sia di controllare la sicurezza e proporre soluzioni credibili ha portato al ritorno, in particolare in Egitto, a regimi più stabili ma al tempo stesso militarizzati e poco democratici. Per reinterpretare la situazione che ora si è creata urge una seria riflessione in merito a una politica estera comune e poi in merito alla risoluzione delle crisi siriana e libica. Forse un compromesso è possibile, ma senza cercare di imporre un modello predefinito o calato dall’alto, bensì adattandosi di volta in volta alle esigenze del paese. Perché, le democrazie in Europa non sono forse nate così?
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