Propongo anche su questo blog i contenuti del mio intervento alla Pentola Vegana (un locale di Monza) di martedì sera sui cosiddetti argomenti diretti e indiretti. Si tratta in buona parte di una presentazione e di una riformulazione del materiale attinto sullo stesso argomento dagli articoli di Katherine Perlo e Aldo Sottofattori pubblicati sulla rivista Liberazioni. La registrazione audio di quel che è stato detto esattamente quella sera, tra i due interventi iniziali (quello di Giampaolo Lanzallotta e il mio) e il dibattito che ne è scaturito, sarà comunque disponibile in tempi brevi sul sito dell’associazione Oltre la Specie.
Nel vasto panorama dei gruppi che si pongono come obiettivo finale la liberazione degli animali non umani da ogni forma di sfruttamento, violenza e coercizione (la liberazione dai macelli, dagli allevamenti, dai laboratori, dagli zoo et cetera), la maggioranza affianca ad argomenti che riguardano direttamente e inequivocabilmente gli animali stessi (è sempre ingiusto far loro del male, tenerli prigionieri per ricavarne profitto et cetera), argomenti di altra natura che vertono invece sugli interessi propri dell’umano. Sono i cosiddetti argomenti indiretti. Per fare alcuni esempi, quelli che vengono citati sui volantini e sui siti che inneggiano alla “scelta vegan” sono principalmente tre: quelli di marca salutista (mangiare carne e latticini nuoce alla nostra salute), quelli ecologisti (secondo le Nazioni Unite gli allevamenti bovini sono i primi responsabili dell’emissione di gas serra e quindi del surriscaldamento globale), quelli infine terzomondisti (le sementi coltivate in territori devastati dalla carestia, come l’Etiopia o il Brasile, vengono esportati in Occidente per sfamare gli animali “da allevamento”). Se ne potrebbero fare molti altri: che la sperimentazione animale debba essere dismessa perché non dà risultati scientificamente validi, che portare i bambini a vedere gli animali del circo (o gli zoo e i delfinari) sia sbagliato da un punto di vista pedagogico, che la caccia vada abolita perché miete anche tante vittime umane per incidente o che, come una volta disse scherzosamente un attivista, non bisogna dare i calci al cane perché si rovinano le scarpe. Sono evidentemente tutti discorsi obliqui rispetto al vero nocciolo della questione, che spinge gli attivisti a impegnarsi in prima persona. Un altro caso ricorrente è quello di citare vegetariani autorevoli del passato (e attori e cantanti pop del presente) come se la loro opinioni fosse in qualche modo rilevante a supporto della causa animalista. In certi ambienti la caccia alla celebrità è diventata una sorta di mania (Da Vinci, Gandhi, McCartney, Carl Lewis, Brad Pitt, Gianni Morandi…).
Da un punto di vista teorico gli argomenti indiretti devono essere rigettati (e quindi non adottati più in assoluto, nè in pubblico nè in privato, per sostenere la liberazione animale) perché invece di intaccare quel paradigma culturale che per cambiare il mondo e salvare quindi gli animali non umani dovremmo stravolgere, consolidano l’antropocentrismo e lo specismo. In pratica, vorrebbero che i non umani fossero risparmiati non perché è giusto così e per una sana compassione del loro tetro destino, ma perché si vorrebbe far credere che la loro morte sia svantaggiosa in fin dei conti anche agli umani. Si rifanno tutti a quella visione del mondo secondo cui l’umano si erge al centro dell’universo e il resto degli enti esistono in funzione di lui; secondo cui tra l’umano e il resto del mondo animale esiste una barriera insormontabile che li distingue nettamente e rende gli uni degni di considerazione morale, gli altri no.
Nel dubbio, per capire se un argomento che stiamo usando è antropocentrico o meno, possiamo porci alcune domande. Ne suggerisco alcune. La prima: faremmo lo stesso tipo di obiezione a proposito di gruppi umani oppressi? Chiederemmo agli israeliani di non bombardare i palestinesi perchè in quel modo causano un dissesto tellurico e deturpano il paesaggio, così come oggi molti animalisti si impuntano sull’impatto ambientale (estremamente inquinante) degli allevamenti intensivi? La seconda: proviamo ad adottare il punto di vista degli animali. Agli animali importerebbe qualcosa di quello che stiamo dicendo? Se le medicine testate sui loro corpi sono efficaci o meno alla fine del processo, se il consumo di latte per il quale teniamo in cattività le vacche è davvero una causa dell’osteoporosi, cambia qualcosa per loro? Qualcuno ritiene che qualsiasi espediente (anche a costo di dire panzane, qualche volta) è lecito pur di tirarli fuori dalle gabbie in cui ora si trovano a marcire, tuttavia la ragioni esposte nel paragrafo precedente e in quello successivo credo siano sufficienti a confutare questa tesi. La terza e ultima domanda: e se così non fosse? Se le deiezioni degli animali allevati in quelle specie di campi di concentramento non contaminassero gravemente le falde acquifere, li mangeremmo lo stesso? Certamente no, per una serie di ragioni etico-politiche. E lo stesso se anche la carne non fosse così cancerogena come dicono certi animalisti.
Tuttavia nemmeno da un punto di vista strategico gli argomenti indiretti sono rilevanti: sono semmai controproducenti. Non solo sono scorretti e inadeguati nei confronti delle vittime, ma sono pure inutili alla loro liberazione. Rappresentano infatti un nascondimento dei propri fini (e alla lunga un ostacolo al loro raggiungimento): nessuno prende sul serio degli animalisti che pretendono di salvare gli animali dalla loro condizione miserevole, cercando di convincere i loro oppositori su basi mediche, ambientaliste o umanitarie. Sono fuorvianti, in quanto sviano la conversazione con chi vorremmo coinvolgere nelle nostre iniziative (o i nostri contraddittori, in un confronto pubblico) e li favoriscono, permettendo loro di parlare di tutt’altro rispetto al problema centrale, ineludibile, che come dicevo è di natura prettamente etico-politica. Mille studi che si contraddicono a vicenda escono ogni giorno per esempio a proposito dell’effetto dei cibi animali sulla nostra salute. Che per divorare il corpo di un animale di un’altra specie occorra invece ucciderlo (quando se ne può fare benissimo a meno e non sussiste giustificazione alcuna a questo gesto, se non una sproporzione nel rapporto di forze) è un fatto invece incontrovertibile. Inoltre gli argomenti indiretti sono sempre limitati ad un singolo settore dello sfruttamento animale (che i cibi di origine animale facciano male, per esempio, non dice nulla sul fatto che non si debba indossare la loro pelle), mentre un discorso di più ampio respiro sulla dignità degli altri viventi (dotati di sensibilità e ragione) è sempre onnicomprensivo e fornisce a chi ci ascolta la misura del nostro pensiero, non solo la nostra opinione su ciascun caso specifico. Ammettono poi delle risposte parziali, a differenza di quelli diretti: se è vero che la nostra preoccupazione è la tutela dell’ambiente o la salute umana, allora è sufficiente mangiare molta meno carne, senza cessarne l’uso del tutto. Per di più, se davvero vogliamo affermarci, in un dibattito serrato, non possiamo certo pensare di fare una gran figura accumulando una serie di argomenti (i più disparati) a sostegno della nostra opinione: occorre trovarne uno unico, il più solido possibile, l’essenziale, e attenersi a questo. Su ciò concorderebbe il più elementare manuale di retorica. Che speranza abbiamo che il nostro messaggio (così distante dalla mentalità corrente, che è profondamente specista) venga percepito e assimilato dall’opinione pubblica, se aggiungiamo e confondiamo ad esso una serie di argomenti altri?
Perché dunque si adoperano gli argomenti indiretti? Credo, semplicemente, perché ormai sono entrati in circolo e perché sono così radicati nel repertorio animalista che (anche volendo) si fa una gran fatica sbarazzarsene. Si dà per scontato innanzitutto che siano veri, né si riflette come si dovrebbe sulla loro opportunità e convenienza. Un altro motivo importante è quello della scarsissima considerazione sociale di cui gode l’impegno animalista, che viene percepito come di second’ordine rispetto alle cause filantropiche non solo dalla società specista, ma anche dagli stessi attivisti antispecisti (che serbano sempre qualche comprensibile insicurezza anche solo ad un livello inconsapevole): si cercano quindi degli argomenti antropocentrici per fare da contrafforte a quelli che sono anti-antropocentrici e superare la resistenza propria e degli interlocutori ad una novità assoluta come l’antispecismo.
Chi ancora li difende si appella in primo luogo alla necessità di aumentare il numero degli attivisti (o più banalmente dei consumatori vegani) per accrescere il consenso nella popolazione totale e accelerare i tempi della liberazione animale. Oppure dubita (ragionevolmente) che questa rivoluzione si compirà mai, pensa che la nostra cultura (e quindi le pratiche che ne derivano) rimarrà sempre antropocentrica, e pertanto ambisce a “convertire” più vegani possibile per salvare più animali possibile. Salvare il salvabile, insomma. Alcuni tra l’altro sono convinti che siccome anche loro inizialmente si erano avvicinati all’animalismo (diventando vegetariani o vegani) in virtù degli argomenti indiretti, tutti i nuovi attivisti debbano passare per questa fase in cui alla questione etico-politica si accompagnano quelle salutista, ambientalista, umanitaria et cetera. Sia nel caso del proselitismo vegan che in quello dello scetticismo pessimista, ci si muove sempre in una prospettiva di conversione uno ad uno, considerando più la quantità che la qualità dei nuovi attivisti che vengono formati e non badando a come il proprio messaggio venga percepito in maniera distorta, mettendo assieme questioni tanto differenti (e ritardando quindi il momento di una eventuale liberazione di tutti gli animali).
Un altro tentativo di difesa degli argomenti indiretti viene da chi (hallelujah!) propone una concezione più politica dell’animalismo, mettendo sullo stesso piano (e quindi conducendo insieme) discorsi relativi la condizione degli animali, dei lavoratori, dei poveri e dell’ecosistema in cui tutti abitiamo. In effetti questo è proprio quello che occorrerebbe fare, aggiungere la questione dell’antispecismo (con le debite conseguenze) agli altri campi di lotta della sinistra radicale, senza però confondere ciò che pertiene l’ambiente e il Terzo Mondo con le ragioni per cui pensiamo che non si debbano sfruttare e uccidere gli animali. Portare avanti come su binari separati (ma sempre paralleli e inscindibili ovviamente) tutti questi discorsi, in un nuovo movimento politico ben articolato e strutturato. Pur avendo a cuore dunque le ingiustizie che vengono perpetrate ai danni degli umani e gli ecocidi in corso in tutto il mondo, nondimeno quando si tratta di argomentare a favore della liberazione degli animali non umani bisogna concentrarsi esclusivamente sugli argomenti diretti: raccontare le crudeltà che essi subiscono, illustrare l’inconsistenza della discriminazione di specie e muovere una critica ben connotata politicamente a tutto il sistema economico e culturale che genera e preserva queste ineguaglianze, che investono in misura differente sia gli umani che i non- umani.
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