Decenni di faticose trattative ed estenuanti confronti per raggiungere un accordo di pace. Una decina di giorni scarsi per mandarlo nuovamente in soffitta. Triste realtà delle relazioni fra Turchia e curdi turchi, capeggiati dal Partito dei Lavoratori (PKK), normalizzatesi in un’ottica pacifica da ormai quasi due anni e ora di nuovo al capolinea. Non è durata la tregua riconosciuta da ambo le parti nel 2013 e di nuovo svanita nel nulla dopo le turbolenze di fine luglio, che hanno provocato nuovi bombardamenti e incursioni dell’esercito turco contro basi e milizie del PKK curdo. Perché?
Il 20 luglio un attacco kamikaze poi rivendicato da IS provoca 20 vittime nella città curda turca di Suruc. Al confine siriano esplode la rabbia della popolazione. Nella regione della Turchia sud-orientale è ancora viva la memoria del caro prezzo con cui i curdi pagarono la vittoria contro il califfato nella città di Kobane nell’apparente indifferenza turca. Reparti dell’esercito di Ankara erano infatti schierati a poche centinaia di metri dalla città, sul confine siriano, senza per questo assumere alcun ruolo attivo nella battaglia, anche quando la situazione per i miliziani curdi appariva particolarmente critica. L’accusa: Ankara si è mostrata incapace di proteggere la popolazione se non addirittura è stata passivamente complice della strage, chiudendo un occhio sull’attività dello Stato Islamico in chiave anti-curda. Di qui, il 22 luglio, l’assassinio di due poliziotti turchi, accusati di presunta connivenza con gli attentatori. La reazione del governo di Recep Tayyip Erdogan non si fa attendere: da quella stessa settimana hanno preso il via i raid contro le installazioni militari del PKK nelle montagne del nord Iraq e nel sud-est Turchia. Due anni di flebile tregua spazzati via nel giro di meno di una settimana.
Occorre però fare un ulteriore passo indietro. Cosa sta a monte della latente tensione curdo-turca, oltre la causa prossima dell’attentato di Suruc? Non si può nascondere come gli attriti tra il governo di Ankara e i militanti curdi del PKK siano aumentati esponenzialmente dopo le elezioni tenutesi lo scorso 7 giugno, in cui l’HDP, il Partito curdo ha ottenuto l’accesso in parlamento mediante il superamento della soglia di sbarramento del 10% imposta per entrare nel parlamento turco. Non solo, il crollo di consensi dell’AKP – il partito Giustizia e Libertà del primo ministro Erdogan – ha creato una situazione politica instabile: l’AKP, pur rimasto partito di maggioranza, si è visto impossibilitato a formare un governo autonomo. È di pochi giorni fa la notizia delle dimissioni di Ahmet Davbutoglu, premier incaricato dal presidente Erdogan, della formazione di un nuovo governo. Con ogni probabilità si andrà a nuove elezioni a inizio novembre. L’impasse politica ha perciò determinato un repentino cambio di strategia in politica estera del governo turco.
Di qui la duplice offensiva di Erdogan contro curdi e estremisti islamici, entrambi gruppi etichettati come terroristi dal governo turco. L’inizio di una politica aggressiva sia nei confronti del PKK che dell’IS sembra essere funzionale ad un duplice scopo nella politica estera turca. In primis, a vantaggio di Erdogan giocherebbe una minimizzazione dell’influenza curda nella politica interna turca, magari tornando a elezioni anticipate e sfruttando l’onda lunga del conflitto anti-curdo in chiave nazionalistica per strappare voti a destra, ottenere la maggioranza e formare un nuovo governo più saldo e autonomo a livello parlamentare. In secondo luogo l’ escalation militare nei confronti di IS, con l’inizio di raid diretti e la concessione ai droni USA della base aerea di Incirlik – una strategia più aggressiva contro i miliziani dello Stato Islamico – mira a strappare ai partiti curdi quali il PKK turco, l’YPG siriano e il KRG iracheno la leadership nella lotta allo Stato Islamico. Il Daesh si è così tramutato da “useful enemy” – secondo le parole di Sinan Ulgen, esperto di politica turca – utile per limitare l’influenza curda, a nemico da colpire con forza per mettere all’angolo le ambizioni territoriali e politiche curde. Ma pur sempre utile ad affermare un ruolo della Turchia più forte nello scacchiere mediorientale.
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