Alcuni mesi fa, nella cornice straniante di uno dei non-luoghi par exellence delle metropoli moderne (un centro commerciale e cinema multisala in via Sarca, a Milano), abbiamo incontrato Swewa Schneider, autrice e interprete della coraggiosa performance teatrale “Di Pecore e Altri Macelli”. Nell’attesa di vederla di nuovo in scena sabato sera, al festival antispecista VEGANch’io, ecco quello che ci siamo detti in quell’occasione.
Parlaci un po’ del tuo percorso di artista e di come è nato il tuo ultimo spettacolo.
Sono partita da”Quelli di Grock”, una scuola di teatro milanese che insegna a dare sempre la priorità al corpo e alle sensazioni rispetto alla parola. L’idea per il mio primo assolo si è formata frequentando la “Bottega dell’attore-autore” di Gianluigi Gherzi, i cui esperimenti di scrittura mi hanno trasmesso questa concezione del teatro stravolgente che non parte da un copione ma da delle singole idee, dalla frase di un libro, da un articolo di giornale. Si intitolava “Vite di scarto” e ruotava intorno al concetto dell’usa e getta. Durante lo spettacolo impersonavo cinque personaggi diversi (un manager, una prostituta et cetera) adescati ingannevolmente da un “angelo della discarica”. Costui dalla città li attirava appunto dentro una discarica di rifiuti e li spingeva a mettersi a nudo, a raccontarsi. Per prepararlo ho trascorso un mucchio di tempo in questi posti interessantissimi che sono le discariche: credo che offrano un punto di vista privilegiato per capire a fondo la società dei consumi. Mi facevano sempre venire in mente gli abitanti di Leonia, nelle Città Invisibili di Calvino, che ogni giorno usano oggetti nuovi fiammanti e se ne sbarazzano il giorno seguente, finchè non muoiono schiacciati da una valanga di spazzatura che hanno accumulato negli immensi immondezzai delle periferie.
E’ da “Vite di scarto” (il titolo si rifà al saggio omonimo di Zygmund Bauman sul tema dell’escluso) che sono arrivata alla questione animale. In particolare l’idea “Di Pecore e Altri Macelli” mi si è formata lavorando con “Il Teatro degli Incontri”, nel 2010, riflettendo sulla figura di Medea e cercando di ricollocarla nello scenario di una città contemporanea. Non tanto Medea come colei che uccide i propri figli, ma la maga, la guaritrice, colei che sa leggere il futuro e che si trova straniera in una città che la rigetta e disprezza le sue arti medicali. Un ambiente mostruoso di cui lei stessa prova ribrezzo e che vorrebbe distruggere o in cui per lo meno vorrebbe impedire che crescessero i suoi figli, a costo di dar loro la morte e di ribellarsi tragicamente alla funzione riproduttiva che la società le ha assegnato nel ruolo di madre. Ad un certo punto dello spettacolo racconto una mia esperienza personale, di quando per raccimolare qualche soldo faccio l’animatrice alle feste dei bambini. Detesto questi momenti per la loro venalità e perchè credo che i bambini dovrebbero costruire da soli la loro festa, con il loro entusiasmo e la loro genuinità, proprio come facevo io da piccola. E così faccio un sogno delirante in cui mi riscopro Medea e vorrei incendiare la casa in cui si trova la festa con all’interno tutti i bambini, per il loro bene, per scamparli al mondo che c’è fuori.
Così come nel mio lavoro precedente ero arrivata dagli oggetti di scarto agli scarti umani, gli esclusi, e mi ero interrogata sulle cause della loro esclusione, in “Di Pecore e Altri Macelli” sono arrivata da un soggetto mitologico, il vello d’oro degli Argonauti, al vello delle pecore. Lo spettacolo è una specie di patchwork, in cui ho assemblato materiali di diversa provenienza: oltre alle canzoni, sono confluiti al suo interno una poesia di Charles Simic e una di Mariangela Gualtieri, ma anche per esempio un passo famoso dalla “Gaia Scienza” di Nietzsche. Molti dei testi che ho assemblato sono ripresi dal saggio filosofico di Filippi e Trasatti, “Crimini in tempo di pace”, a cui in particolare mi sono ispirata per la descrizione del quadro di Lorenzo Lotto, l’Annunciazione, di cui sul palcoscenico compare l’ingrandimento di un particolare (quello del gatto). “Di pecore e altri macelli” è costituito per larga parte dalle riflessioni che sono scaturite leggendo quel libro e ragionandone con uno degli autori, Filippo Trasatti.
Ci ha impressionato positivamente il peso che sei riuscita a dare nell’economia del tuo spettacolo alla sfera della fisicità e all’interazione con il pubblico. Distribuendo degli strumenti musicali, molto rudimentali, chiedi agli spettatori di suonarli in dei momenti precisi. In questo modo li coinvolgi in una forma di teatro corale, collettivo: questi corpi che emettono suoni, tutti raccolti attorno a te, sembrano riportare il teatro alla dimensione originaria del rito. Nella scenografia che hai allestito, sulla destra c’è un quadro ricoperto da una patina bianca, che in vari momenti dello spettacolo vai ripulendo con un raschietto. In questo modo si fa sempre più visibile un’immagine, sopra la quale si trova un legno che per la forma ricorda il teschio di un montone. A questo hai appeso dei rotoli di garza. Srotolando i cartigli, da questa sorta di altare leggi al pubblico-orchestra dei messaggi che sembrano provenire da una sapienza remota. Sei un po’ sibilla, un po’ la sacerdotessa di Delfi, che scriveva i suoi oracoli sulle foglie di alloro e li affidava al vento. Al centro invece hai posizionato il banco dove le pecorelle ricevono, intimidite dalla voce potente di quello che tu chiami l’Innominabile (supponiamo, il Potere), un’opera di disciplinamento e di dissezionamento: tant’è che le pecorelle, rappresentate da dei batuffoli di cotone, dopo essere state ridotte all’obbedienza, vengono appese a dei ganci che ricordano terribilmente quelli dei mattatoi. Ci sembra di riconoscere in questo luogo l’agorà, lo spazio politico, la città-mattatoio. Infine a sinistra si trova lo spazio dove ti rifugi per confessarti al tuo psicanalista (perennemente assente), ma che per la presenza dell’immagine del gatto di Lotto (quello di “Crimini in tempo di pace”) questo angolo sembra configurarsi non solo come il luogo dell’introspezione, ma anche dell’evasione e del riscatto. E’ qui che le pecore trovano il coraggio di sottrarsi al loro carnefice. Ti ritrovi in questa ricostruzione?
E’ interessante. In realtà ho cominciato a progettare il mio spettacolo immaginando la città abitata da Medea come divisa in quattro parti: quella del Passato Mitico (la città degradata ma pur sempre autentica in cui ho vissuto la mia adolescenza), quella delle Norme (della burocrazia e dei divieti assurdi), quella dei Coltelli (che ho cercato di descrivere in “Di Pecore e Altri Macelli”) e infine quella del Sole (la città utopica, liberata, dove Medea vuole fuggire). Nella città dei Coltelli i lavoratori sfruttati e i miserabili sono animali al macello e anche coloro che si credono appagati e ben integrati funzionano in realtà come gli ingranaggi di questa grande macchina, in cui restano intrappolati. I meccanismi in atto sono i medesimi per gli umani come per gli altri animali, sono tutti avvinghiati e trainati dallo stesso sistema infernale.
L’immagine che si disvela progressivamente nel corso dello spettacolo è la riproduzione di un dipinto di scuola leonardesca, conservato alla Pinacoteca di Brera. Vi sono rappresentati la Madonna con il bambino e l’agnellino. In essi vedo la soluzione felice del dramma evocato all’inizio dello spettacolo, quando da uno dei cartigli leggo i versi del poeta latino Lucrezio sulla mucca disperata, che vaga alla ricerca del suo piccolo, non sapendo che è stato vittima di un sacrificio. Questo quadro rinascimentale si caratterizza come un contraltare anche rispetto alla scena infelice del dipinto di Lotto, che ho collocato appunto sul lato opposto del palcoscenico. Là il gatto tentava la fuga, oppresso dalla relazione sempre più stringente (fino quasi all’identificazione totale) tra l’umano e il divino. Qui invece l’abbraccio, l’intimità, il contatto che si crea tra i tre personaggi, come in un bagno di luce, anticipa il superamento di tutte le gerarchie e le disparità, il raggiungimento di un altrove rivoluzionario, la scoperta di una nuova umanità. Il rito che celebro in questo senso non è affatto un sacrificio cruento, al contrario è il compimento di una riconciliazione tra l’Uomo e gli altri animali, con la nascita di un nuovo ordine armonico all’interno della natura. E’ il tentativo di colmare un vuoto, di rimediare ad una perdita, ad un dolore. L’altra figura opposta all’Innominabile, invocata spasmodicamente dalle pecorelle, è quella della Pecorella celeste: essa è Medea che dall’alto le rincuora e le invita a rigenerarsi bevendo l’acqua di una fonte e al tempo stesso è la figura mariana nel quadro di Leonardo. Essa invita il gregge a non ascoltare i moniti del Potere, a scagliarsi in un balzo oltre il dirupo e a trovare nella città utopica la sua salvezza. Molti dei gesti che compio durante lo spettacolo sono ispirati a quelli previsti durante il Cammino di Santiago. Per esempio intendo la lavanda dei piedi, oltre che in senso religioso, come manifestazione di convivialità, di vicinanza, di cura dell’altro.
Al centro della scena invece effettivamente avviene la macellazione delle pecore. Il Potere vuole spaventarle, vuole persuaderle che se anche solo una oserà trasgredire le regole, periranno tutte. E così le rimbrotta di continuo, perché rimangano imprigionate nella città dei Coltelli. Le vuole docili, omologate e per questa ragione cerca continuamente di dividerle in gruppi (per genere, classe, professione, provenienza). La planimetria della città a cui faccio riferimento è anche quella del mattatoio: prima dello sgozzamento avviene lo stordimento e così, con una mossa proditoria, prima di uccidere le pecore il Potere assume sembianze materne, le culla, le allatta, le trastulla con la sua voce suadente. Questo corrisponde al divertimento obbligatorio e compulsivo, frenetico, che la città somministra ai suoi abitanti, mentre li spreme completamente delle loro energie vitali e creative: sono i grandi centri commerciali, il luccichio allettante dei negozi, i cinema multisala, le discoteche, gli happy hour.
Abbiamo apprezzato molto anche il fatto che, pur essendo tu vegetariana, non abbia assunto un tono didattico durante lo spettacolo per redarguire gli spettatori sulle norme alimentari che dovrebbero seguire, per ammaestrarli sulle mille e mille atrocità che avvengono ogni giorno nei luoghi di detenzione e sfruttamento degli animali. Piuttosto hai lasciato delle suggestioni culturali che ciascuno dovrebbe sviluppare autonomamente, traendone le debite conseguenze, e hai fatto trasparire le pesanti analogie tra la condizione in cui si trovano, forzati e rinchiusi all’interno della stessa struttura di dominio, umani e non umani. E’ comunque evidente che nel tuo spettacolo gli animali non fungono semplicemente da allegoria per rappresentare le ingiustizie all’interno della società umana.
Certo. Le problematiche di cui mi interesso valgono a proposito degli animali umani come dei non umani: penso ai dispositivi di controllo, la condotta civile dettata dalla sorveglianza, i limiti che ci sono imposti e ci imponiamo, che diamo per scontati o prendiamo per giusti, inevitabili o naturali, l’inautenticità della vita che viviamo, la spinta all’egoismo e alla competitività che riceviamo piuttosto che alla solidarietà, il senso di perenne precarietà e dunque macellabilità che ci trasmette il mondo del lavoro. In fondo le torrette di guardia, il filo spinato e le telecamere che vediamo talvolta nelle grandi città sono le stesse nelle prigioni e negli allevamenti, compaiono egualmente nel mio primo spettacolo, “Vite di Scarto”, come in quest’ultimo, “Di Pecore e Altri Macelli”.
In “Di Pecore e Altri Macelli” la sovrapposizione e l’ibridazione tra la figura umana e quella animale è costante: c’è un continuo giocare all’animale, farsi animale, assumerne le sembianze. Indosso prima un costume da pecora (con tanto di mammelle), poi una maschera con delle corna ferine. Della Vergine di Leonardo dico che i suoi occhi materni sono gli stessi di qualsiasi cagna, di qualsiasi giumenta. La maternità e la femminilità stesse, su cui indugio, raggiungono la vicinanza estrema con il mondo animale nell’atto del parto e della lattazione. Davanti ai “continenti di sangue” disegnati sul grembiule del macellaio, nella poesia di Simic, mi trovo incredula a chiedermi perché non ci sono al posto dell’animale appeso. E in una delle scene finali io stessa, nello studio deserto dello psicanalista, mi rendo improvvisamente conto di trovarmi all’interno del mattatoio, che il mio è prossimo turno, che al di là di una parete sottile si sente l’ansimare sconnesso dell’animale che viene abbattuto prima di me.
Quando le pecore sognano la libertà e nel panico prima della mattanza, gli agnelli in cerchio congiungono gli zoccoli delle loro zampe sulle grate del macello, c’è in filigrana un’immagine che ho tratto dal libro di Fabrizio Gatti “Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini”, in cui il giornalista racconta di quando in un centro di accoglienza un gruppo di migranti da diversi paesi, ridotti in condizioni bestiali, disumane, si stringono in cerchio e dandosi la mano cantano un gospel.
Nel tempo libero sappiamo che balli la Capoeira e che stai imparando a suonare strumenti come djambè, pandeiro e berimbau. Ci è molto piaciuto il modo in cui hai saputo inserire motivi tribali o canzoni popolari nei momenti emotivamente salienti dello spettacolo: rendono davvero il canto melodioso delle madri che allattano, umane e non umane, o i lamenti della madri in pena per i figli. Invece ci ha convinti di meno la parte in cui, dopo aver raccontato di aver visto per la strada un elemosinante con un cartello che dice “Sono disoccupato e sono italiano”, ti fai tutta seria e in coro con il pubblico canti “Sono un italiano vero” di Toto Cotugno.
Premesso che mi piace moltissimo cantare quel brano, anche un altro amico lo ha criticato come un retaggio del populismo nazional-popolare e un tentativo da parte mia di ingraziarmi gli spettatori. In realtà sono ironica quando lo canto sul palco (leggo il testo da un rotolo di carta igienica) e proprio nella scena precedente rappresento il branco di pecore dissezionato dal Potere, che vorrebbe separare quelle “extra-vergini” italiane da quelle straniere, extra-europee e meticce. Io stessa tra l’altro in quel momento, essendo per metà tedesca e per metà italiana, devo dividermi in due, come a dire che questa lacerazione inferta dal Potere non si abbatte solo sul corpo sociale ma persino sul corpo fisico e psichico dei singoli individui. L’uomo col cartello esiste davvero: l’ho visto tante volte in metropolitana a Milano e mi ha fatto rabbia che pretendesse di ricevere un aiuto economico in quanto italiano (in quel periodo per di più lavoravo come volontaria in un’associazione di accoglienza profughi).
Ringraziando Swewa per il tempo che ha ci dedicato, concludiamo questa intervista regalandole un’altra poesia che può aggiungere alla sua già ricca collezione di testi: anche questa parla di pecore e di sfruttatori, di dominio e di disobbedienza e la dice lunga sui rapporti di potere che dai suoi esordi l’Uomo intrattiene con i non umani, della sua e delle altre specie.
Adamo, che fu er primo prepotente,
disse a la Pecorella: – Me darai
la lana bianca e morbida che fai
perché la lana serve tutta a me.
Bisogna che me vesta… Dico bene?…-
La Pecorella je rispose: – Bee…-
E l’Omo se vestì. Doppo tre mesi
la Pecorella partorì tre agnelli.
Adamo je se prese puro quelli
e je tajò la gola a tutt’e tre.
Questi qui me li magno… Faccio bene?…
La Pecorella je rispose: – Bee…-
La bestia s’invecchiò. Doppo quattr’anni
rimase senza latte e senza lana.
Allora Adamo disse: – In settimana
bisognerà che scanni pur’a te;
oramai t’ho sfruttata… Faccio bene?…-
La Pecorella je rispose: – Bee…
Brava! – je strillò l’Omo. – Tu sei nata
còr sentimento de la disciplina:
come tutta la massa pecorina
conoschi er tu’ dovere e dichi: bee…
Ma se per caso nun t’annasse bene,
eh, allora, fija, poveretta te!
(“Adamo e la pecora”, Trilussa)
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