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Regia: J. J. Abrams
Sceneggiatura: Lawrence Kasdan, J. J. Abrams, Michael Arndt
Anno: 2015
Durata: 135’
Nazione: USA
Fotografia: Daniel Mindel
Montaggio: Mary Jo Markey, Maryann Brandon
Scenografia: Rick Carter, Darren Gilfort
Costumi: Mchael Kaplan
Colonna sonora: John Williams
Interpreti: Daisy Ridley, Adam Driver, Harrison Ford, Mark Hamill, Carrie Fisher, John Boyega, Oscar Isaac, Andy Serkis, Domhnail Gleeson, Anthony Daniels, Peter Mayhew, Max von Sydow
Recensione originale sul Fachiro
TRAMA
Luke Skywalker è scomparso ma esiste una mappa che rivela il luogo in cui è nascosto. Sullo sfondo una nuova guerra, fra la Resistenza e le forze oscure del Primo Ordine.
RECENSIONI
Star Wars non è un film qualunque e ha provocato uno scisma fra i Fachiri. Dopo le prime tre recensioni per il “lato chiaro”, eccone due per il “lato oscuro” della Forza!
LATO OSCURO DELLA FORZA
“Corrotto dal Lato oscuro Star Wars VII è. Ciò che è stato creato, più non esiste”.
Sotto la maschera niente
Tutti hanno presente quella deliziosa sensazione che si prova quando un film non convince senza sapere perché. Purtroppo guardando l’ultimo episodio di Star Wars mi è capitato l’esatto contrario. Poche volte mi è capitato di avere le idee così chiare sui motivi della non riuscita di un film e ancor più raramente questa persuasione si è offerta in maniera altrettanto spontanea ed esplicita attraverso una semplice immagine: la famigerata scena in cui il cattivissimo Kylo Ren si toglie la maschera e sotto non c’è niente. Il punto è capire cos’è questo “niente” e cosa rappresenta, perché proprio all’interno di tale definizione si giocano – e a mio parere si sono smarriti – il senso e la credibilità di Star Wars. Limiterò quindi il raggio d’azione delle mie brevi considerazioni attorno a quest’immagine: il povero Kylo Ren sarà il nostro capro espiatorio.
Kylo Ren si toglie la maschera e sotto c’è il “niente”, ossia il vuoto di un’espressione volutamente e marcatamente inespressiva[1]. Non v’è nulla della tensione fra innocenza e perversione che attraversava il protagonista dell’esalogia originale, Anakin Skywalker. Se la tragicità della figura di Anakin risiedeva tutta nell’impossibilità di prendere le distanze da un passato già realizzato (Darth Vader è il ni-ente di Anakin, l’annullamento della sua persona e della sua stessa umanità, creando un ibrido fra umano e cyborg), quella di Kylo Ren è, al contrario, la tragicità di un Edipo che deve ancora ammazzare il proprio padre, un Edipo che non è ancora nessuno e che (per non continuare a esser tale) non vuole salvarsi. Questo “niente” è allora l’abisso che separa il Figlio dal Padre; la vertigine provata da Kylo di fronte alla maschera della figura fantasma(mi)tica di Darth Vader rispecchia il senso di inadeguatezza che attanaglia la nuova generazione rispetto alla vecchia e, naturalmente, l’ultima saga di Star Wars rispetto a quella originale. Il problema di come raccogliere la scomoda eredità che porta i nomi di Darth Vader e di George Lucas potrebbe essere allora espressa dalla questione di come colmare l’abisso fra due diverse generazioni di spettatori (due modi di fare cinema, due modi di vedere il mondo), accontentando gli ultimi senza tradire i primi. Ecco perché sopra si affermava che attorno a quel “niente” gravita il senso di Star Wars, sia in quanto operazione estetica che commerciale. Ecco perché si ritiene che, proprio quel “niente”, quel vuoto, sia l’origine degli enormi buchi neri della sceneggiatura che hanno trascinato con sé tutta la narrazione, sino a comprometterne irrimediabilmente la credibilità. Mi limiterò a sottolineare i due buchi neri principali.
Il primo buco nero inghiotte l’incredulo spettatore dopo pochi minuti, quando si scopre con raccapriccio che l’Impero non è scomparso, anzi è più forte che mai e domina la galassia con strumenti inconcepibili fino a pochi anni prima (dal ridicolo raggio spaziale capace di disintegrare in un attimo interi pianeti, alla nuova Morte Nera, più grande della precedente, eppure ancora capace di esplodere grazie a colpi mirati di minuscoli caccia spaziali). Invano abbiamo sofferto con i ribelli e festeggiato con loro la definitiva vittoria a Endor, che aveva ricompensato dei sacrifici di Anakin e di Obi-Wan Kenobi. Sono trascorsi pochi anni dalla grande battaglia “finale” del Ritorno dello Jedi, eppure scopriamo che tutto è stato inutile, i nostri eroi sono morti senza un motivo e la memoria collettiva fa di loro nient’altro che delle flebili leggende. Inizia una nuova guerra, le armi sono più potenti e gli avversari hanno nomi nuovi, ma tutto in realtà è come prima e da quella tragica esperienza nessuno ha imparato niente.
Il secondo buco nero è ancor più spudorato del primo e riguarda il presunto “risveglio della Forza” di cui parla il titolo. Mastro Yoda ci aveva insegnato che la Forza non si risveglia né addormenta, ma è eterna, sempre presente, avvolge tutto, compenetra i corpi, copre le distanze. Per gestirla e controllarla in modo saggio uno Jedi doveva allenarsi a lungo, fisicamente e mentalmente; al contrario il “lato oscuro” è quell’impulso che trae giovamento dalla rabbia, si insinua anche nell’animo più puro. È di questa ambiguità e polarità della Forza che si alimenta tutta la tensione tragica della figura di Darth Vader e dell’esalogia originale. Il nuovo episodio non lascia invece spazio ad ambiguità, è un film manicheo dove esistono solo buoni e cattivi. Il lato “chiaro” della Forza somiglia più a un superpotere innato e sembra che, chi lo possiede, non abbia neppure bisogno di allenarsi per controllarla; il lato “oscuro”, che dovrebbe rappresentare quello più “facile” e seducente, pare invece richiedere un travagliato percorso interiore: tale è l’impressione ambivalente che suscitano Ray (capace di controlla la forza dopo cinque minuti)[2] e Kylo Ren (che al contrario deve sudarsi parecchio il suo apprendistato, deve essere umiliato da una ragazzina, da uno stormtrooper qualunque e ammazzare a tradimento il proprio padre[3]). Insomma, Kylo Ren deve combattere con se stesso e gli altri per conoscere la Forza (filosofia Jedi), mentre Ray la possiede e la domina senza troppa fatica (filosofia dei Sith). Come non rimanere disorientati e non sentirsi traditi di fronte a questa contraddizione? Per un attimo lo spettatore stesso è tentato dal lato oscuro e vien voglia di “tifare” per la vittoria finale del Primo Ordine.
Concludiamo tornando al punto di partenza, cioè al nostro “niente”. Perché questo è esattamente ciò che rimane di questo film. L’immagine che ci viene in aiuto stavolta è quella del povero Kylo che contempla la maschera di Darth Vader: basterà al nostro moderno Edipo aver ammazzato a tradimento il padre per inaugurare la sua tragedia e diventare leggenda? A giudicare dall’umiliazione subìta, poco dopo, da parte della giovane Ray, sembra proprio di no. Allo stesso modo J. J. Abrams si è sentito costretto a compiere un parricidio per allontanare lo scomodo spettro di George Lucas: gli incassi gli hanno dato ragione, ma la nostra immodesta impressione è che questo film appartenga al “lato oscuro” della storia del cinema. Anakin era il Prescelto, potenzialmente il miglior Jedi della storia, prima di diventare un Sith qualunque, ricordate? Invano ci eravamo illusi che Il risveglio della forza – con a disposizione un regista visionario e i potentissimi mezzi dell’industria Disney – potesse diventare il miglior episodio della saga: possiamo restare in speranzosa attesa dei prossimi due capitoli, ma il progetto di costruire una trilogia uniforme e lineare sembra destinata a un fallimento quasi totale. Ciò che resterà, dopo aver deposto la maschera di Darth Vader, è il “niente” di cui parlavamo all’inizio, ossia l’assenza e la nostalgia del Padre.
[1] Alcuni vili in sala – fra cui il sottoscritto – non sono riusciti a trattanere un sorriso di fronte all’espressione da cane bastonato di un Adam Driver troppo simile al nostro Herbert Ballerina, al punto che per un attimo avevo creduto di assistere alla proiezione di uno dei suoi spassosi trailer: la vicenda del ballerino che voleva fare l’usciere non ci sembra avere minore profondità psicologica di quella del bravo adolescente che si maschera per sembrare più cattivo e imitare la corruzione fisica e morale del nonno glorioso.
[2] Ray è una protagonista grintosa –anche troppo, sembra uscita da un film alla Hunger Games – ma bisogna notare come la sua figura emerga per caratteristiche tipicamente maschili, quali la forza e il coraggio: in barba a tante lettura pseudo-femministe, a noi sembravano, in questo senso, molto più autentiche e interessanti Padmé Amidala o Leia (sì, anche nel suo abito da schiavetta).
[3] Non approfondirò, per rispetto del personaggio, l’indignitosa morte di Han Solo. Meglio accettare la sua scomparsa in un precipizio senza versare neppure una lacrimuccia piuttosto che continuare a vederlo torturato da una sceneggiatura che l’aveva ridotto a personaggio asettico (contrabbandiere malridotto, marito abbandonato, padre ignorato) senza più nulla da dire.
Voto: 4
Patrick Martinotta
Forse la Forza era meglio lasciarla dormire
Cimentarsi in un sequel di Star Wars è impresa terribilmente rischiosa per diversi motivi: primo tra tutti è mettere mano per ampliare un progetto che era stato considerato concluso dal creatore della saga e che lasciava aperte le porte solo ad un prequel. Se ci si cimenta in un’impresa del genere si hanno due possibilitá: o tentare una rivoluzione che ambisca a migliorare il prodotto originario, oppure creare un remake di un film perfetto e per i tempi rivoluzionario, contando sull’effetto nostalgia sulla scia di quanto giá avvenuto con Jurassic World. J.J. Abraham ha fatto esattamente questo: spinto dal colosso Disney, ha creato una copia moderna di A New Hope e non ha osato nulla. Ha solo intinto l’opera conclusa nella fonte del buonismo disneyano. Chiariamo subito: Il Risveglio della Forza è un film che si lascia vedere e sono presenti anche un paio di sequenze di inseguimento col Millenium davvero notevoli, ma Episodio VII non consegna nulla di nuovo alla storia del cinema. A proposito del Millenium, da citare la buona recitazione di Harrison Ford. Han Solo, anche se invecchiato e con qualche kg in piú conferisce ancora brillantezza e verve ai dialoghi… ma tutti gli altri attori sono mangiati da questo vecchio contrabbandiere spaziale e dal suo amico peloso. Finn, il protagonista maschile, uno star trooper con crisi di coscienza, é privo di carisma, continuamente affannato nel tentativo di salvare la bella di turno, che alla fine si rivelerá l’unica capace di opporsi al lato oscuro. La fanciulla in questione, per quanto non sia malvagia nella recitazione, sembra creata appositamente nel solco delle nuove principesse Disney di inizio XXI secolo: la nostra Rey, come Merida in The Brave, Tiana né La Principessa e il Ranocchio, Elsa in Frozen, é bella, forte e anche in grado di maneggiare armi. Rey in 5 minuti sa governare la forza meglio del maestro Yoda ed é lei a salvare la vita al povero Finn.
Ed eccoci alle dolentissime note: Kylo Ren, il cattivo. Per la prima metá del film é un personaggio dark dotato di un mistero che cattura l’attenzione del pubblico: è spietato, controlla la forza come solo ho visto fare a Palpatine nell’intera saga, fermando con il potere della mente un colpo di blaster, sparato a distanza ravvicinata, ed è il figlio di Han, allenato da Lucke! Ad un certo punto però decide di togliersi la maschera e rivelare le sue debolezze: vive nell’ombra dell’emulazione di Vader e non si sente del tutto ripulito dalla luce. La domanda é perchè? Kylo Ren aveva tutto per essere un temibile cattivo, ma la maschera, che porta solo per assomigliare a Vader, nasconde un ragazzino dal vocino da Harry Potter e il faccino da bimbo sperduto (a molti ha ricordato il figlio di Iannacci). In questo film il lato oscuro si perde nel concetto disneyano della ricerca del bene anche dove il male sembra trionfare e in tutto ciò la forza viene usata come la pozione magica di Asterix. Uno Jedi scopre di averla e – puff! -sa maneggiare una spada laser e piegare la mente delle persone. Abraham poi ha tentato di riportare gli stessi tempi registici e gli stessi tagli di scena di 40 anni fa. I prequel di Lucas a inizio anni duemila erano figli del loro tempo, contestualizzati, privi del politically correct che la Disney ci ha appioppato. E poi c’erano attori del calibro di Liam Neason, Samuel L. Jackson e Ewan Macgregor che si sono allenati 6 mesi per imparare I movimenti dei combattimenti, prendendo lezioni da maestri esperti nella tecnica del kendo. Personalmente considero questo film un fallimento dal punto di vista artistico, perchè non è stato capace di commuovermi, né di suscitare in me suspance o sorprendermi (la trama è pure abbastanza scontata). Ho giusto sorriso un paio di volte alla vista del nuovo droide Bb8 (che comunque ricorda sempre il Disneyano Wolly) e nelle scene in cui Han torna alla guida del Falcon. Citavo all’inizio Jurassic World e l’effetto nostalgia cavalcato anche da Colin Trevorrow col sequel dei dinosauri di Spielberg. A tal proposito vorrei però dire che, pur nella medesima operazione nostalgia, quel film ha saputo osare molto, soprattutto nelle scene nell’addestramento dei Raptor. Il regista, sconfessando lo stesso principio del “più grande, più denti” con la vittoria del tirannosauro alla fine sull’ibrido, ha velatamente saputo stigmatizzare il principio che ha mosso la creazione di film come questo e la saga di Guerre Stellari: qualsiasi remake fallisce, l’originale vince sempre; imitare il passato non serve a nulla, perché esso é un vissuto che serve solo ad osare nuove e intentate imprese, come fatto (in parte) da Trevorrow e dal vero blockbuster rivelazione 2015, Mad Max – Fury Road.
Voto: 5,5
Stefano Rovelli
VOTI
Davide “Duzzo” Fedeli: 7,5
Serena Zoia e Guido Longoni: 8
Alberto Coletti: 7
Patrick Martinotta: 4
Stefano Rovelli: 5,5
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