Siedereste mai alla stessa tavola con un cannibale? Riuscireste a diffondervi serenamente in pacati conversari con chi vi siede di fronte, mentre il vostro sguardo cade inavvertito sul suo piatto per riconoscervi un arto, le interiora, il volto di un qualche signore o signora straziato e cucinato abilmente dal cuoco di turno? Con ogni probabilità il cannibale prosegue senza troppi scrupoli la tradizione culinaria della sua famiglia e del paese di origine, razzista e classista convinto o semplicemente sbadato, non metterebbe mai in discussione la liceità del fiero pasto che sta consumando. Che la persona di cui si sta nutrendo sia stata massacrata in una scorribanda nel paese dove abitava e sia stata poi messa in commercio sotto forma di braciola, oppure sia stata cresciuta prigioniera in una gabbia e quindi giustiziata, al vostro cannibale è fondamentalmente indifferente. Obiettategli pure che farebbe bene a mangiare altro, a ribellarsi a tanto scempio, e vi risponderà elogiando la squisitezza della pietanza o accusandovi di moralismo. Vi darà del pazzo oppure penserà che siete deboli di stomaco (indi delle femminucce e degli smidollati). Magari vi esporrà la sua visione delle cose, spiegandovi perché il morto trasformato in polpette meritava quella fine: probabilmente era straniero, un nemico, un essere inferiore, una sorta di automa in preda ai suoi istinti, sola parvenza di un individuo senziente (il limpido docetismo dei carnivori). Sicuramente era un sconosciuto: nessuno mangerebbe volentieri un amico o un conoscente.
Alcuni attivisti animalisti, i più radicali (nel senso distorto e deteriore del termine), sostengono l’inopportunità per chi si considera antispecista di sedere allo stesso desco dei mangiatori di carne. Nell’intervista di Pisa a Gary Yourofsky, egli racconta di aver rotto completamente i rapporti con i suoi parenti, dai quali è stato sempre e completamente incompreso: durante una delle molte conferenze che tiene negli Stati Uniti, gli è capitato di passare nelle vicinanze della sua città d’origine. Ha quindi colto l’occasione per rivederli, a patto che almeno quella volta mangiassero vegano anche loro. Quando il cuginetto ha ordinato un hamburger vegetariano (double cheese!), il santo degli animali (quelli non umani) si è alzato e ha lasciato furioso il ristorante.
Certamente non ci sono eccezioni in cui giustificare l’uso e il consumo di prodotti animali. Non è mai accettabile picchiare, sfruttare, stuprare qualcuno. Se siamo davvero antispecisti e pensiamo che una violenza inferta ad un animale non umano è altrettanto grave di quella inferta ad un nostro conspecifico, è auto evidente l’orrore morale di pranzare in comunione con chi avvalla certe pratiche e certe ideologie. Tuttavia credo che un simile rifiuto, nelle attuali circostanze, porterebbe ad un isolamento e ad un settarismo da parte della ancora sparuta comunità antispecista “vegana” che acuirebbe la sua distanza con il resto della società. Un netto rifiuto in questo caso sarebbe di ostacolo a quella libera circolazione delle idee, a quel dialogo salutare e a quella quotidiana frequentazione che ogni giorno consapevolizza sempre più gente e contribuisce a dissipare quella cortina di ignoranza che avvolge la realtà dello sfruttamento animale.
L’aderenza severa e senza sconti alle loro convinzioni, per quanto bizzarre ed eterodosse potessero risultare inizialmente agli occhi del mondo pagano, ha portato i primi cristiani a conquistare l’Occidente in meno di quattrocento anni, nonostante o anzi in virtù del loro settarismo ed isolazionismo. Ma gli stravolgimenti politici, sociali, economici e culturali, che auspicabilmente si accompagnerebbero alla liberazione degli animali non umani, sarebbero di una portata ben superiore a quelli attuatisi con la rivoluzione cristiana, nella tarda antichità. Anche per questo motivo, ora che le idee dell’antispecismo hanno appena cominciato a diffondersi, credo che sia necessaria un’apertura e una tolleranza maggiore di quelle che si usarono allora.
Inoltre non oso immaginare nell’esperienza normale di ciascun attivista odierno (che abbia adottato una dieta vegana) l’ulteriore complicazione che insorgerebbe se dovesse separarsi ad ogni pasto dai propri colleghi o familiari. Considerando il numero ridotto di vegani in circolazione, la vita gli diventerebbe impossibile a meno che decidesse di ritirarsi in via definitiva in una comune vegana (di cui credo ne esistano forse un paio sul territorio nazionale, attualmente).
E’ inconfutabile il piacere di stare insieme a tavola e parlare del più e del meno: il cibo e le bevande sono un formidabile aggregante sociale. A maggior ragione non bisogna lasciarsi scappare occasioni come il pranzo e la cena, le più banali e reiterate, per dar loro un senso politicamente positivo. Bisogna tener conto che tante volte si persuaderanno i propri compagni a modificare in maniera incisiva le loro idee e le loro abitudini non con la filosofia dialettica e i sillogismi, ma con la forza spiazzante del buon esempio: le scelte alimentari sono e restano un fatto sociale, prima che razionale. Insomma, sebbene per essere perfettamente coerente (in teoria) un bravo antispecista dovrebbe rifiutarsi di condividere il momento del pasto con chi divora il corpo di un altro animale, a volte (come in questo caso) il compromesso è d’obbligo.
Penso se da ateo mi sottoporrei quotidianamente a discussioni o riti comuni con qualche religioso, in nome magari della tolleranza. No, mi alzerei ben presto dal tavolo, come il signore in questione. Allo stesso modo un vegano può trovare insopportabile avere animali morti sul suo tavolo. Il compromesso però in questo caso è d’obbligo, come dici tu, perchè mentre della religione si può fare a meno, del cibo non si può. Quindi, caro Giorgio, siamo in attesa dell’onnivoro che, sedendo al tuo tavolo, in virtù di questo compromesso (bipartisan, vorrei sottolineare) ti farà cambiare idea con la “forza spiazzante del suo esempio”. Cordialità.
Caro Pasqui, il tuo paragone sarebbe più calzante se immaginassi di essere nato in una società completamente e profondamente cristianizzata (o islamizzata), in cui non potresti “alzarti da tavola” sottraendoti a discorsi di carattere religioso a meno che ti estraniassi completamente dal tuo contesto di provenienza (arrivando in extremis a migrare in un’altra comunità, che si ispiri a valori compatibili con i tuoi). Per quanto riguarda il compromesso bipartisan, non vorrei che il mio articolo avesse suggerito l’idea di un mondo felice in cui antispecisti vegani e specisti onnivori vivono e mangiano felici scambiandosi pacche sulle spalle, in uno spirito di reciproca tolleranza e accettazione. In questo senso la similitudine con il dialogo tra atei e credenti non regge, in quanto dall’opzione di fede di ciascuno non dipende la vita o la morte, la libertà o la cattività di altri esseri senzienti. Da una prospettiva antispecista, la convivenza con chi partecipa (direttamente o indirettamente) allo sfruttamento e all’uccisione degli animali non umani può essere accettata solo in una logica di necessità e di provvisorietà. E rimane comunque una convinvenza dolorosa, indipendentemente dall’affetto e dalla simpatia che si nutre per i propri commensali carnivori.