Condivido su questo blog una serie di due interventi sui modi di dire specisti, preparati per la trasmissione radio Restiamo animali.
Gettare le perle ai porci significa correntemente donare qualcosa di grande pregio e bellezza a chi non sa coglierne il valore. Com’è noto l’espressione appartiene a Gesù di Nazareth, che nel discorso della montagna diffida i suoi dal dare ai cani ciò che è santo e dal gettare le loro perle ai maiali (perchè le calpesterebbero e subito dopo si rivolgerebbero contro di loro per sbranarli).
Secondo l’esegesi contemporanea, dietro quei porci si nascondono niente meno che i romani, che allora occupavano militarmente la palestina ed erano parecchio odiati dai giudei. Quale animale peggiore del maiale, la creatura impura per eccellenza nell’universo magico-religioso della torah, per indicare con una metafora i romani?
C’è un altro passo nei Vageli sinottici in cui questa vena anti-romana compare insieme alla figura dei suini: quando una torma di demoni tormentano un invasato di Gerasa. Gesù li interroga sul loro nome ed essi rispondono di chiamarsi Legione. Allora Gesù permette loro di migrare nei corpi dei porci che pascolano in branco lì vicino e questi si gettano in mare a capofitto, morendo affogati tutti e 2000.
Nel caso dell’allegoria delle perle, più dei romani si trattava in generale dei gentili: i popoli che coabitavano nelle stesse terre dei giudei ma, anzichè il Dio geloso di Israele, adoravano i propri idoli e soprattutto non rispettavano le leggi comportamentali prescritte dalla tradizione mosaica. I gentili sono ricorrentemente rappresentanti come cani e porci, in senso ovviamente dispregiativo. Quel che intendeva Gesù quando diceva di non gettere le perle ai porci era di non rivolgere a coloro che non fossero già ebrei il messaggio salvifico di cui era il portatore (ovvero che i tempi erano compiuti, che il Regno di Dio era prossimo a venire, che bisognava amarsi l’un l’altro come fratelli e vivere santamente), ma di riservarlo esclusivamente alla stirpe di Davide. In una fase di rielaborazione del messaggio evangelico e di espansione della fede cristiana anche al di fuori dell’ambiente giudaico, avvenne una correzione di questo precetto. Per cui ad esempio, nel Vangelo di Giovanni, Gesù ribadisce il suo pensiero secondo cui “Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini”, ma si ammorbidisce poi davanti alla fede della donna cananea che lo implora: “Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni “.
Non tutti gli studiosi sono concordi su questa interpretazione. Del resto a noi, da buoni seguaci (anzi compagni) dell’antispecismo politico, di quel che intendesse davvero Gesù non ce ne cale più di tanto, al di là della ricerca storica. Chiudiamo quindi questo intervento sui modi di dire specisti aggiungendo alla consueta esortazione <<restiamo animali!>>, una seconda esortazione <<gettate, gettate le vostre perle ai porci!>>, che forse non apprezzeranno il vostro gesto, ma varrà almeno da risarcimento simbolico per tutti coloro che, ieri come oggi, stipano i propri scrigni di perle e altri preziosi, allevando, commerciando e ammazzando milioni e milioni di scrofe e maiali.
Santo il proposito di includere e reintegrare tutta la creazione nel disegno di fratellanza universale. Però il divenire animale dell’uomo avviene sempre all’interno di un orizzonte linguistico e logico umano, e mai mediante una mera spoliazione di quelle che sarebbero mere incrostazioni di superficie di un’originaria, comune essenza animale. La storicità umana impedisce di pensare ad un comune sostrato “animale” fluido che si limiterebbe a modificarsi di specie in specie. Il linguaggio non è uno strumento neutro ed indifferente per trasmettere informazioni da un individuo ad un altro, ma un orizzonte all’interno della quale soltanto si dà qualcosa come un mondo, e le cose appaiono. Walter Benjamin diceva che per l’uomo, ad es., una lampada è sempre una lampada-del-linguaggio. E lo stesso vale per l’animale e l’animalità. E se questo è logocentrismo, bè allora sono logocentrico. Tuttavia non è questo il senso che gli dava Derrida. Lui opponeva al logos orale la scrittura come luogo sorgivo del pensiero. Dunque, di nuovo, qualcosa di precipuamente umano. Derrida stesso diceva da qualche parte che solo l’uomo può essere disumano, perché la disumanità non è un semplice stato che si ottiene mediante l’asportazione dell’umanità (non esiste una siffatta contrapposizione di sostanze), ma una modalità interna all’esser uomo. Il punto non è, sempre dicendolo con Derrida, quello di eliminare le soglie, magari per raggiungere una visione panteistica, o un’indifferenziazione mistica- il punto sta nel problematizzarle. il problema dunque sorge nel momento in cui questa dis-umanità si contrappone ai miei occhi come qualcosa che non mi riguarda, che pongo in modo rassicurante fuori ed accanto a me. Ma di nuovo ciò non significa che io sono identico all’animale, anzi, significa che l’animale deve diventare veramente l’altro, il tutt’altro di cui non posso semplicemente disporre, l’assolutamente altro, il che non significa relegarlo ad un alterità classificabile in specie, ma coglierlo come qualcosa che mi mette in discussione e mi inquieta dall’interno. Il tutt’altro sono io. L’animale sono io, dove la tensione tra io e animale posti in relazione dal verbo essere rimane. La visione è tragica, non risolutiva; è un progetto, non un piano; è un’incrinatura nell’esistente, non un programma per risanarla.
Tutto ciò naturalmente non ci dice che fare. Deporre o delegare questa scelta ad un piano ideologico, politico, morale etc. significa de-storicizzare l’uomo e privarlo della piena responsabilità. Dove storia significa tutt’altra cosa dalla ricerca delle cause o di “ciò che è venuto prima ed ha condizionato il presente”, rendendo così il presente il risultato di una semplice somma di eventi passati, si ammetta pure che l’uomo non riuscirà mai, per limiti contingenti, a ricostruire interamente la serie. Stare nella storia significa esattamente il contrario, cioè: indeducibilità di tutte le nostre decisioni da regole predeterminate. Siano esse regole tratte dall’osservazione del passato (“fin’ora è accaduto questo, ora possiamo…”), regole morali universali, sistemi di valori politici. Se la storia è il luogo del novum e in cui ha senso l’agire umano, ovviamente. Altrimenti la si potrebbe lasciare agli studiosi di ecologia sociale.
Di nuovo ciò non significa che tutto ciò che facciamo è equivalente, ma che, tragicamente, non abbiamo nulla che ci garantisca in principio ciò che è buono. Che la nostra azione è giustificata solo escatologicamente (qui in senso non necessariamente religioso) a partire da ciò che verrà, e non ciò che è stato. Dunque, saluto con la più grande felicità il tuo impegno, ti garantisco che non mi è indifferente, ma che non è una via nella quale sento collocato il centro della mia responsabilità. Ciò è, naturalmente, molto diverso dal dire che non ho alcuna responsabilità nei confronti di essa.
Non sono uno storico del cristianesimo, ma credo nel messaggio salvifico di Gesù Cristo, e dunque credo che nelle parole conservate nel Vangelo, siano esse autenticamente gesuane o meno, c’è qualcosa di più della riconduzione analitica delle stesse ad un contesto storico. La Parola, personalmente, a me è giunta attraverso le parole di Girard. La mia attenzione non è tanto rivolta a verificare a chi l’appellativo di “porci” sia riferito, ma a coglierne il significato all’interno dell’economia della salvezza e del testo che la tramanda.Quello che è essenziale dei porci, come si vede bene nel parallelo con l’episodio dell’esorcismo di Gerasa, è il loro essere branco. Cioè gruppo che fonda la propria identità mediante la rimozione di una verità (la stessa violenza del branco) che minerebbe la loro stessa identità sociale, di branco. Per questo i demoni soffrono e implorano, perché sono tormentati dal loro non poter conservare il loro proprium. La sentenza completa di Gesù che intima di non gettare le perle ai porci, è completata da quella meno popolare secondo cui essi si volterebbero per sbranarti non appena tu gli abbia voltato le spalle. La verità e l’esattezza sono due cose diverse, anche se l’onestà non volta mai le spalle di fronte alla seconda, quando il prossimo manifesta l’esigenza di testimoniarla.
Sono sorpreso e felice che da una prospettiva religiosa (parli di creazione e di un disegno provvidenziale) le mie intenzioni possano risultare addirittura sante. Non so quanti tuoi correligionari sarebbero d’accordo. La mia chiusa polemica non era rivolta tanto all’antropocentrismo cristiano (che in qualche forma forse potrebbe essere stemperato e reso compatibile con la nostra critica all’umanesimo e allo specismo), quanto più a quella branca dell’animalismo che invece di spernacchiare i fondatori delle religioni e le altre autorità del passato, reclamando la propria originalità e creando nuovi immaginari, cercano piuttosto di attirarsi la simpatia dei fedeli di oggi giorno appropriandosi (in maniera strampalata, antistorica e autolesionista) dell’autorevolezza di quei personaggi. Dicono per esempio “Cristo era vegetariano”…
Sul linguaggio che non è neutro ma influenza anzi, innerva e costituisce il nostro modo di percepire, interpretare ed esprimere la realtà (in cui siamo immersi e di cui facciamo parte) sfondi una porta aperta. Credo però che si possa pensare il mondo in molti modi, anche al di sopra e al di sotto del piano verbale. E certamente rimango convinto della validità della critica al logocentrismo inteso come assolutizzazione ed elevazione del linguaggio umano a discrimine tra chi né è sprovvisto (e può quindi essere emarginato ed ucciso) e chi essendone pienamente dotato rientra di diritto nella comunità morale.
Condivido che la ricerca di una comune animalità non debba procedere per sottrazione ma tramite l’abbattimento di quelle barriere mentali e materiali che separano l’umano dalla miriade di altre specie che abitano il pianeta. Lo si può fare contestando la reale consistenza di queste barriere o per lo meno negando le deduzioni che i più traggono dalla loro presenza, in termini di esclusione degli esponenti delle altre specie dalle più basilari norme etiche con cui ci rapportiamo ai nostri simili.
E’ vero a proposito dell’ “animale” (se vogliamo accettare questo concetto dogmatico, che ci contrappone nettamente al resto del vivente) che non bisogna “relegarlo ad un’alterità classificabile in specie, ma coglierlo come qualcosa che mi mette in discussione e mi inquieta dall’interno”. Tuttavia non vedo questa polarità, questa tensione metafisica che affonda le sue radici in una realtà immutabile piuttosto che in un processo storico e che – secondo te – non può essere affatto modificata da un progetto politico-culturale.
La tua visione della storia (non deterministica, imprevedibile, aperta al nuovo, interpretabile solo a partire dal futuro) è affascinante e schiettamente cristiana. Dovrei approfondire l’argomento per dirti dove mi ci ritrovo e dove no. Lascia però che io sia biecamente storicista nel rifiutare ogni lettura allegorica della Bibbia (la tua, girardiana, e tutte quelle dei tuoi predecessori), tese a riscattare il testo sacro ponendolo in un nuovo orizzonte di senso, stravolgendone il significato originario. E’ legittimo sacrificare il dato filologico di partenza all’insegna di nuove trovate esegetiche e nuove speculazioni, senza attribuirle tuttavia all’intenzione dell’autore. Non farei della Bibbia una sorgente di verità (al singolare) eterna ed assoluta. Piuttosto la esalterei (come faccio di tanti altri capolavori della letteratura) per la sua ricchezza fruttifera nel produrre nuove verità sotto forma di nuove speculazioni e trovate esegetiche. Mi guarderei bene dall’attribuirle un qualche valore ontologico e normativo universale e soprattutto non abbasserei la guardia di fronte agli aspetti in cui è più compromessa con la cultura (patriarcale, pastorale, sessista, specista et cetera) di cui è l’espressione.
Grazie del tuo commento straordinariamente profondo, ben al di là delle modeste ambizioni del mio articoletto sul Gesù storico e i modi di dire specisti
E’ proprio sulle “elementari norme etiche” che non posso tacere. Ogni prospettiva ha un presupposto, come è giusto che sia, e nelle “basilari norme etiche” mi sembra che si sia rivelato il tuo. Il problema è che i presupposti diventano perniciosi, e nel peggiore dei casi pregiudizi, quando rimangono impliciti. Cosa sono queste norme etiche? Da cosa derivano? Sono proprie solo all’uomo o ad altri enti? Da un punto di vista filosofico mi sembra che il discorso sulle norme etiche elementari sia possibile solo sulla base di una credenza in un’humanitas universale, in un’idea generale di uomo (tuo malgrado) e di bene, in una NATURALE e CON-NATURATA capacità dell’uomo di riconoscere il bene, a sua volta identificato con la vita di specie, in alcuni casi biologica (Darwin), in altri giusnaturalistica o “metafisica” (l'”umanità” degli illuministi o di Feuerbach per esempio).
Nella storia della filosofia morale si sono posti in modo convulso e appassionante questi interrogativi e si è fatto più volte il tentativo di fondare un’etica, strettamente legato alla questione decisiva se sia possibile o meno un bene (bonum) senza la sua a-simmetria inoculata almeno come germe dal cristianesimo (caritas). Il più profondo e coerente dei tentativi di ricondurre l’etica alla sfera puramente umana e non religiosa l’ha perseguito Hume, che non a caso finisce di fatto per privare ogni possibilità di parlare di etica in modo normativo, e di trasformarla in una storia dei comportamenti della specie umana, ecologia per l’appunto. In lui scompare persino l’esigenza di “fondare” un’etica (il mio simpaticissimo e venerando prof. di filosofia morale Lecaldano, bioeticista laico e anglofilo amava ripetere: “Perché dovrei mai fondare qualcosa? Sono un filosofo mica un muratore!”). I principi morali sono secondo Hume il risultato di una progressiva serie di spinte e contro-spinte, un reciproco adeguamento dei rapporti umani che li ha condotti nel corso della storia a trovare, come per assestamento, una configurazione adeguata di volta in volta al loro rapporti sociali e con la natura. L’uomo di base è dotato di due principi morali: l’egoismo teso a soddisfare i propri bisogni e una limitata (inizialmente ai propri consanguinei) capacità di empatia (principio di specie, e non meramente sentimentalista che fornisce le elementari condizioni perché le società non si autodistrugga). Secondo complicati processi che neanche ricordo il secondo principio si estende (grazie ad un meccanismo quasi fisico dell’immaginazione, che è capace di mimare e riprodurre nella propria mente la sofferenza altrui). Insomma, questo è quello che si chiama un grande tentativo di fondazione a-religiosa dell’etica. Ma a parte il fatto che se la si guarda da vicino è quella che nel mio intervento precedente ho chiamato “ecologia sociale” (solo condotta con i mezzi scientifiici dell’epoca), è evidente che non può condurre a nessuna decisione vera e propria. A partire da questi principii bisognerebbe limitarsi a studiare (cosa secondo me impossibile in linea di principio, e non per limiti scientifici contingenti) tutte le connessioni tra i principi naturali e l’uomo, e dedurne la possibilità di includere o meno anche gli animali in questo metabolismo uomo-natura. E’ chiaro che non c’è niente di propriamente buono e cattivo, non c’è neanche giustizia in questa prospettiva, ma solo un’analisi a partire dalla quale poter dedurre delle conseguenze convenienti alla nostra specie. Tutto ciò lo dico consapevole del fatto che, soprttutto allo stadio tecnico attuale, questa filosofia morale humiana sarebbe un ottimo strumento per legittimare l’astensione dall’uccisione degli altri animali. Ma non sarebbe etica; sarebbe ecologia.
Perché ti dico tutto ciò? Perché per comunicare si devono esplicitare i presupposti a partire dalla quale si osservano i fenomeni. E io devo conoscere i presupposti di una persona con cui discuto, per discutere della STESSA COSA, e non di due cose diverse con parole simili, e per sapere dove la discussione non mi interessa più. Inoltre qualsiasi posizione se non conosce i suoi presupposti non sa quello che dice, e si riduce a puro impressionismo concettuale. Pensa a come si parla dell’immigrazione nei talk show: non si delimita un tema, non si chiarisce da dove si parte e dove si vuol finire; al contrario si sciolgono le briglie alle opinioni più varie che, a prescindere dalla loro qualità, appartengono a paradigmi e a questioni (direi quasi a fatti) completamente diversi.
Non sto sostenendo che tu, come nei talk show speculi su questa indeterminatezza concettuale, o che tu non abbia riflettuto sui presupposti della tua scelta. Piuttosto sono interessato semplicemente a capire quali siano, qualsiasi essi siano. Dopo di che a seonda di quali sono la discussione diventerà per me (per me solo, chiaro!) interessante o meno. Dopo Hume e Nietzsche, tanto per citarne due, secondo me è impossibile sostenere che possano esserci principi normativi morali e tntomeno politici. Basta vedere come Marx oppone ai suoi nostalgici ed ingenui precursori utopisti (cioè normativi) una visione del regno futuro come risultato di presupposti “ecologici”, organizzativi, tecnici. E come quando non lo fa, egli ricade nella fantasia illuminista di pensare un’umanità univarsale, o romantica quando parla di umanità “integrale”. Ma non mi aspetto che queste mie considerazioni vengano condivise. Mi è sufficiente che tu mi dica da dove prendi quei basilari principi etici. Certo la prospettiva dell'”umanità” ti sembrerà ancora specista, ovviamente. ma potresti aggiornare, come suggerivo sopra, quella humiana. E perché no, parlare invece che di principi per la conservazione della società umana,aggiornare i suoi principii alla versione 2.0 misticheggiante e parlare del grande essere che abbraccia tutto il vivente, del flusso che attraversa tutte le cose proclamandone la sostanziale identità, dell’identità cosmico-ambientale. In fondo sarebbe un ritorno alle filosofie orientali. A questo punto cesserebbe di essere interessente per me la discussione, ma almeno capirei da dove prendi quei principi etici. A me piacciono le filosofie contemporanee proprio per il rifiuto dell’identità. Si direbbe che anche l’orientali sono de-soggettivanti. Ma quello che non si capisce è che le grandi filosofie contemporanee da Nietzsche in poi non rifiutano soltanto e in primo luogo l’identità del soggetto, ma quella del mondo! Difficile piegare Deleuze e Derrida ad una visione sostanzialistica o di identità di tutte le cose. i flussi deleuziani sono esattamente il contrario del flusso che attraversa tutto il vivente, sono segmenti spezzati. Ma mi sto dilungando. Va bene anche se mi dici che sono impiantati nei nostri neuroni, ovviamente.